di Don Antonino De Maria

Non smetterò mai di ringraziare Massimo Borghesi per la sua ultima opera: Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale di campo », Jaca Book 2021, che ho già citato altrove, per la ricchezza con la quale apre spiragli di lettura interessanti e, soprattutto, completi ( certamente di parte con la simpatia di chi sa leggere senza paraocchi) di questo pontificato.

Innanzitutto con testi che difficilmente vengono citati. Uno di questi è il Discorso che Papa Francesco ha pronunciato il 13 settembre del 2018 ai partecipanti ad un congresso organizzato dalla Casa della Tenerezza sulla teologia della tenerezza in Papa Francesco. Ho già segnalato come la teologia di Papa Francesco nasce e si forma intorno a Guardini e Newman e recepisce anche lo sguardo estetico della teologia di von Balthasar. Si tratta, come dice il Papa, di una teologia viva che si incarna in una carne che è quella dell’uomo di oggi e non si ferma al passato. Di solito quando si dice così qualcuno storce il naso pensando che si voglia cambiare la Tradizione, la grande teologia dei Padri e dei Dottori della Chiesa per uno sbilanciamento mondano, a favore di un adeguamento alle agende di questo mondo. Operazione che altri vorrebbero. In realtà basandosi sull’idea di sviluppo teologico di Newman[1], Papa Francesco non intende mettere in discussione nulla. Si tratta di parlare ad un uomo che non è quello della cristianità medievale e, su questo, come scoprirete più avanti, è molto più in accordo con Papa Benedetto XVI e San Giovanni Paolo II di quanto certa letteratura voglia ammettere. La contrapposizione tra il Papa e l’emerito è un falso storico: basterebbe leggerli veramente e non chiuderli nei propri schemi.

Perché una teologia della tenerezza?

“ Il primo riguarda l’espressione teologia della tenerezza. Teologia e tenerezza sembrano due parole distanti: la prima sembra richiamare l’ambito accademico, la seconda le relazioni interpersonali. In realtà la nostra fede le lega indissolubilmente. La teologia, infatti, non può essere astratta – se fosse astratta, sarebbe ideologia –, perché nasce da una conoscenza esistenziale, nasce dall’incontro col Verbo fatto carne! La teologia è chiamata allora a comunicare la concretezza del Dio amore. E tenerezza è un buon “esistenziale concreto”, per tradurre ai nostri tempi l’affetto che il Signore nutre per noi.”

Il punto di partenza è una teologia che nasce dall’incontro con Cristo e non dalle sante elucubrazioni dei teologi. Ed è questo incontro, la Sua Persona e il suo atteggiamento nei confronti dell’uomo, il suo modo di incontrarsi con l’uomo (compresa l’ecclesiologia) il cuore di ogni cristiana teologia.

“Oggi, infatti, ci si concentra meno, rispetto al passato, sul concetto o sulla prassi e più sul “sentire”. Può non piacere, ma è un dato di fatto: si parte da quello che si sente. La teologia non può certamente ridursi a sentimento, ma non può nemmeno ignorare che in molte parti del mondo l’approccio alle questioni vitali non inizia più dalle domande ultime o dalle esigenze sociali, ma da ciò che la persona avverte emotivamente. La teologia è interpellata ad accompagnare questa ricerca esistenziale, apportando la luce che viene dalla Parola di Dio. E una buona teologia della tenerezza può declinare la carità divina in questo senso. È possibile, perché l’amore di Dio non è un principio generale astratto, ma personale e concreto, che lo Spirito Santo comunica nell’intimo. Egli, infatti, raggiunge e trasforma i sentimenti e i pensieri dell’uomo. Quali contenuti potrebbe dunque avere una teologia della tenerezza? Due mi sembrano importanti, e sono gli altri due spunti che vorrei offrirvi: la bellezza di sentirci amati da Dio e la bellezza di sentirci di amare in nome di Dio. “

L’uomo di oggi si pone di fronte a tutto con un atteggiamento “emotivo” ed “estetico” e meno con un atteggiamento riflessivo o filosofico. Ciò senza annullare il valore esistenziale delle domande di senso significa agganciare l’uomo a partire da questo suo modo di porsi di fronte alla realtà, proprio perché le domande ri-sorgano come interessanti, vere ed ultime e la risposta cristiana sia accolta come verità amante di sé e di tutto ciò che esiste. Dare risposta a domande che non vengono più poste o di fronte alle quali ci si pone con un atteggiamento diverso è come gettare una pietruscola nel mare.

Sentirci amati. È un messaggio che ci è pervenuto più forte negli ultimi tempi: dal Sacro Cuore, da Gesù misericordioso, dalla misericordia come proprietà essenziale della Trinità e della vita cristiana. Oggi la liturgia ci ricordava la parola di Gesù: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). La tenerezza può indicare proprio il nostro modo di recepire oggi la misericordia divina. La tenerezza ci svela, accanto al volto paterno, quello materno di Dio, di un Dio innamorato dell’uomo, che ci ama di un amore infinitamente più grande di quello che ha una madre per il proprio figlio (cfr Is 49,15). Qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa facciamo, siamo certi che Dio è vicino, compassionevole, pronto a commuoversi per noi. Tenerezza è una parola benefica, è l’antidoto alla paura nei riguardi di Dio, perché «nell’amore non c’è timore» (1 Gv 4,18), perché la fiducia vince la paura. Sentirci amati significa dunque imparare a confidare in Dio, a dirgli, come Egli vuole: “Gesù, confido in te”.

Queste e altre considerazioni può approfondire la ricerca: per dare alla Chiesa una teologia “gustosa”; per aiutarci a vivere una fede consapevole, ardente di amore e di speranza; per esortarci a piegare le ginocchia, toccati e feriti dall’amore divino. In questo senso la tenerezza rimanda alla Passione. La Croce è infatti il sigillo della tenerezza divina, che si attinge dalle piaghe del Signore. Le sue ferite visibili sono le finestre che spalancano il suo amore invisibile. La sua Passione ci invita a trasformare il nostro cuore di pietra in cuore di carne, ad appassionarci di Dio. E dell’uomo, per amore di Dio.

Ecco allora l’ultimo spunto: sentirci di amare. Quando l’uomo si sente veramente amato, si sente portato anche ad amare. D’altronde, se Dio è infinita tenerezza, anche l’uomo, creato a sua immagine, è capace di tenerezza. La tenerezza, allora, lungi dal ridursi a sentimentalismo, è il primo passo per superare il ripiegamento su sé stessi, per uscire dall’egocentrismo che deturpa la libertà umana. La tenerezza di Dio ci porta a capire che l’amore è il senso della vita. Comprendiamo così che la radice della nostra libertà non è mai autoreferenziale. E ci sentiamo chiamati a riversare nel mondo l’amore ricevuto dal Signore, a declinarlo nella Chiesa, nella famiglia, nella società, a coniugarlo nel servire e nel donarci. Tutto questo non per dovere, ma per amore, per amore di colui dal quale siamo teneramente amati.”

Di questa esigenza con formulazioni diverse e accenti diversi hanno parlato tutti i Papi del post Concilio: San Paolo VI con Evangelii nuntiandi; Giovanni Paolo I con le sue catechesi e soprattutto San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Così la teologia della tenerezza si aggancia alla teologia della misericordia con uno sguardo nuovo dal punto di vista antropologico.

Proprio Benedetto XVI sottolinea

In una intervista a J. Servais, l’importanza di questo sguardo rispondendo a una domanda, il Papa emerito parla della centralità della misericordia. «L’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’ umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa. Tuttavia, a mio parere, continua a esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante – a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza». Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’ esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’ uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’ attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza».[2]

Una teologia “gustosa”, come la definisce papa Francesco, è una teologia che sa cogliere il segno dei tempi, come lo chiama papa Benedetto XVI, e ne fa un’occasione di evangelizzazione, un metodo missionario e non concentrato in una sterile apologia del passato. Ho sottolineato sterile perché una vera apologia, cioè difesa di quanto ci è stato tramandato, è capace di dare nuovo gusto a tutto: una bellezza viva e rinnovantesi e non una brodaglia annacquata. i Padri non hanno mai smesso di interrogare il Mistero e san Tommaso non si è mai fermato a ripetere Aristotele. Anche Tommaso sentiva l’esigenza che la teologia aiutasse ad entrare nel mistero del Dio Vivente, perché l’uomo vivente, concreto, diventasse, come direbbe Ireneo, gloria di Dio, del Dio Vivente.


[1] J. H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Jaca Book 2003

[2] Intervista a Benedetto XVI di J, Servais, sj, in Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali, a cura di Daniele Libanori sj, San Paolo 2016, p.

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