di Don Antonino De Maria
Siamo alle soglie della Settimana Santa, la Grande Settimana che culmina con l’Alleluia pasquale, il grido di gioia più vero, tra le esperienze di gioia che l’uomo vive nella sua vita; più vero della gioia della nascita o dell’innamoramento, più vero di ogni gesto umano: perché ogni gioia umana si infrange nel limite della morte, la Pasqua è vittoria sulla morte e apertura sull’eterno.
Questo tempo che viviamo in casa si dilata e ci permette di riflettere, di leggere un libro, di meditare nella preghiera la Parola di Dio, di dialogare tra noi in modi inusuali, quelli del tempo libero che ora diventa tempo di grazia, grande occasione di crescita.
E in questo tempo ho offerto ai miei amici mediatici (molti di loro sono amici anche nella prossimità della vita) uno spunto di meditazione: “Facciamoci una domanda: che cosa sto imparando da questi giorni? Perché quando tutto questo finirà non avremo più scuse, ne capri espiatori sui quali scaricare tutte le colpe delle nostre frustrazioni. Molti torneranno forse a fare le stesse cose di prima: spero che in tanti invece cambiamo vita, cominciamo da noi stessi a scegliere l’essenziale, il vero, il bene piuttosto che il male.”
Già: che cosa emerge di nuovo nella nostra coscienza dall’esperienza di questa quarantena, di questa messa tra parentesi dell’abituale, dell’apparente svilupparsi della libertà alla quale tanto teniamo? Lasciare che questo tempo passi semplicemente come le giornate di pioggia che attendono il sole, per tornare alle proprie occupazioni fino alla sera, quella del giorno come quella della vita, è veramente triste, mancanza di quella saggezza che fa di ogni tempo un’occasione.
Ma come posso cambiare vita se incontro nell’espandersi del desiderio del cambiamento l’esperienza continua del mio peccato? E quando parlo del peccato intendo qualcosa di più dell’esperienza del fare ciò che non si dovrebbe fare: è l’esperienza di un tragico, ultimo “non posso da me” che frustra il desiderio del bene e che mi blocca, quasi che il tornare indietro diventa simile alla ritrovata terra nella tempesta del mare.
La conversione è lo spazio tra il mio desiderio di bene e il mistero della grazia. Non ha a che fare con una maggiore generosità, con una ritrovata esperienza dei legami e delle relazioni, con un rinato sforzo di crescita. Non semplicemente in essi. La conversione è possibile solo perché in Cristo l’esperienza del peccato è presa in carico dall’evento della Croce e rigenerato l’uomo è rigenerato nella novità graziosa della Risurrezione.
Non è diventare più onesti o avere il coraggio per il dovere quotidiano[1], perché è in questo sforzo che l’uomo incontra il proprio limite come peccato.
“ In questo sta l’amore: non siamo stati noi (non noi, il nostro impeto al bene, la nostra generosità spinta dalla gratitudine) ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi ed ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” ( I Gv. 4, 10), ha offerto la sua vita per noi (I Gv 3, 16). Senza l’esperienza della Croce non è possibile oltrepassare la tempesta del mio peccato ed amare l’altro: “ Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (I Gv 4, 11). In Cristo crocifisso e risorto diventa possibile il passaggio dall’amore di Dio all’amore per il prossimo. È l’esplosione dell’abbondanza della grazia: “ubi autem abundavit peccatum, superabundavit gratiam – dove il peccato sembrava colmo, la grazia ha sovrabbondato (Rom 5, 20).
Concludo con questo testo di Balthasar: “ Il Cristo, che vive in me, mi è così intimo (è più vicino di quanto io lo sia a me stesso) perché è morto per me, mi ha preso con sé sulla croce e mi prende continuamente con sé nell’eucarestia. Come potrebbe il rapporto con un mio simile essere paragonabile a quello, e perciò esigere come risposta lo stesso amore? Il ponte per l’amore ai fratelli nel senso di Cristo è costituito dal fatto che egli ha compiuto per ognuno ciò che ha compiuto per me”[2].
Non è possibile cambiare il mondo, il mio mondo senza la Pasqua, senza entrare sacramentalmente nel mistero pasquale di Cristo, morto e risorto per me e per tutti. La saggezza di questo tempo, la novità tanto attesa diventa mendicanza, domanda piena di dolore e di desiderio di poter entrare totalmente in questo mistero.
[1] Cfr, H. U. von Balthasar, Cordula, ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1974, p.107
[2] Ivi, p. 106