di Don Antonino De Maria
Non avevo mai sentito parlare così tanto di morti (non della morte) in questo tempo nel quale siamo perennemente attaccati alle notizie sul numero dei contagiati, sul bollettino mortuario di qualcosa che ha interrotto il flusso di una vita vissuta come se la morte non esistesse, almeno fino a quando la notizia di un familiare morto non ci raggiunge come una tegola caduta improvvisamente sulla nostra testa.
Eppure, ancora non abbiamo riflettuto abbastanza sul fatto che siamo mortali, che la morte, la straniera, è sempre lì in agguato. Viviamo come se non esistesse, come se non ci riguardasse, finché non ci tocca nella carne.
Pensare alla morte ci fa comprendere quanto siamo fragili e com’è bella la vita, anche solo quell’attimo dove sperimentiamo il senso della nostra esistenza, del nostro esserci: non nuvole di passaggio, momentanei sprazzi di sole, ma esistenze degne e capaci di dare molto.
Oggi siamo stati costretti a rientrare in noi stessi per comprendere il valore della nostra vita, la bellezza dei nostri rapporti, la capacità di essere protagonisti non di singoli sogni ma di vite che si incontrano, si abbracciano, si sostengono, si asciugano le lacrime, si amano senza trattarsi come cose. La morte ci costringe a tutto questo: ma non è ancora la risurrezione.
Per risorgere siamo chiamati a donare la vita, a donare noi stessi: solo così smetteremo di essere morti che credono di essere vivi e, finalmente, respirare la vita. La vita che genera nell’accettare la morte da parte del seme, nel donarsi totalmente; la vita che sa di essere stata generata dal dono di un Altro e non dal caso bizzarro. San Paolo lo scrive continuamente, lo abbiamo ascoltato ma non lo abbiamo accettato fino in fondo: la Vita è discesa spogliandosi nella morte perché io viva, non nella paura della morte. Che io viva amando la vita nel volto di un altro, nel mio stesso volto, rifiutato e disprezzato.
Finalmente posso dire Io senza timore della disillusione: la Vita è scesa nell’inferno della morte, della mia morte e ha vinto. La morte allora, direbbe San Francesco, diventa sorella, misteriosamente aperta alla Risurrezione.
Si muore ogni giorno, in mille modi. Ma soprattutto si muore perché non si conosce il Vivente.
Se questo tempo ci permettesse di ricostruire ciò che avevamo perduto, messo tra parentesi, sarebbe già una grande cosa. Se tornassimo al nulla di prima avrebbe vinto la morte. Pasqua è questo: niente è più come prima perché il Signore della Vita ha vinto.