Una vocazione che germoglia a Catania alla fine degli anni Sessanta e, passando dalla Lombardia e dal monastero di Vitorchiano, fiorisce in terre lontane come l’Uganda e il Congo: si può riassumere così, in poche parole, la storia di madre Anna Chiara Meli (al secolo Anna Maria), monaca trappista, per oltre vent’anni madre superiora del monastero di Kikwit (Congo).


Gli anni universitari, la “comunità di base” al Villaggio Sant’Agata

«La vocazione è rispondere di sì a Qualcuno che ci invita, ci chiama a seguirLo: è semplice»: lei, 77 anni, la sua esperienza la spiega così.
La ripercorre, partendo dagli anni in cui frequentava la parrocchia di Cristo Re, con il parroco don Biagio Apa, e Gioventù Studentesca a Catania. Da universitaria partecipò attivamente alle riunioni della FUCI: è in questi contesti che matura l’amicizia con don Francesco Ventorino (don Ciccio). Quest’ultimo, oltre ad essere il responsabile locale della nascente comunità di Comunione e Liberazione, ricopriva in quel periodo un ruolo di rilievo anche nella FUCI stessa.

Già in procinto di laurearsi, Anna Maria aveva sviluppato l’intenzione di entrare in clausura, contrastata fortemente in questa ipotesi dalla sua famiglia, che invece la mandò per sei mesi in giro per il mondo: sei mesi pensati per farle scoprire che c’era altro a cui dedicarsi nella vita.

«L’obiettivo dei miei genitori sembrava raggiunto», ma proprio nei primi anni Settanta l’amicizia con i ragazzi conosciuti a GS cresce.
Si sviluppano le prime “comunità di base”, che prevedevano l’insediamento di alcuni in un quartiere periferico della città, per vivere in modo più radicale l’esperienza della fede, dell’essenzialità e della comunione. Anna Maria aderisce sin da subito, trasferendosi, appena laureata, al Villaggio Sant’Agata, dove nel frattempo don Biagio diventa parroco, e si erano insediati anche don Ciccio (divenuto Rettore del Seminario), don Pino Ruggeri e alcuni seminaristi non solo catanesi. Questi ultimi proprio lì verificarono la loro vocazione, aiutati nel percorso dai sopracitati docenti e da alcuni ragazzi (compresa Anna Maria) provenienti da Cristo Re e da GS. In molti avevano accolto l’opportunità di aprirsi alle periferie. Era il 1971.

L’incontro con don Giussani e la missione in Uganda

Nel frattempo Anna Maria comincia la sua carriera da insegnante in Lombardia: nonostante fosse fidanzata con un ragazzo catanese che le voleva bene, e che la andava periodicamente a trovare a Gerenzano, dove si trovava, proprio qui la sua vocazione crebbe. E don Ciccio – che aveva continuato a seguirla nel suo discernimento – la mette in contatto con don Luigi Giussani (fondatore del movimento di CL). Anna Maria risponde con semplicità alla richiesta che il sacerdote lombardo aveva diffuso cercando volontari che si recassero per un periodo in Brasile o in Uganda, per dare supporto e compagnia a due memores domini. «Ero laureata da poco – racconta – e ho pensato che se davvero in tutt’Italia Giussani non avesse trovato qualcuno, potevo farlo io per un paio d’anni».

In quell’incontro il fondatore di Cl saggiò la sua volontà facendole tante domande. Poi le chiese: «Come ti trovi con i neri?», pensando all’Africa. Lei rispose: «Sono siciliana. Sono vicini ed anche noi, in estate, diventiamo un po’ scuretti». Partì, dunque, per l’Uganda, dove rimase per sei anni con padre Pietro Tiboni (missionario comboniano) e la memor Chiara Mezzalira. Nell’orbita di quest’ultima vi erano alcune ragazze africane che volevano verificare la loro appartenenza ai Memores Domini, ed Anna Maria diede il proprio supporto, anzitutto nell’aspetto educativo e didattico. Rimase lì, fino a quando tutti quelli che si trovavano in quel luogo non dovettero rientrare per il permanere della guerra civile.

Da Vitorchiano a Kikwit, «per testimoniare l’amore del Padre»

Dopo varie vicissitudini, accettazioni e rifiuti, Anna Maria viene accettata come novizia nel monastero di Vitorchiano. Presi i voti, assume il nome di suor Anna Chiara Meli, quasi per tenere sempre presente l’esperienza in Uganda con Chiara Mezzalira e il suo nuovo stato di vita.

Nel 2000 la comunità di Vitorchiano decise di sostenere e soccorrere fraternamente un monastero che le Clarisse del Benin avevano fondato a Kikwit, in Congo, nel 1990. Era una comunità in difficoltà, formata da tre monache che, insieme alle difficoltà nella costruzione del Monastero, si chiedevano l’utilità di una comunità claustrale in un paese come l’Africa in cui non avere figli e non lavorare per lo sviluppo sembravano del tutto inutili. Suor Anna Chiara si rese disponibile a fare di Kikwit il luogo della sua vocazione e la sua casa. Dall’Abate Generale ricevette quindi un compito preciso: capire se l’esperienza avesse la possibilità di sopravvivere e di svilupparsi.

In Congo – dove oggi imperversa l’invasione (per scopi puramente economici delle milizie terroristiche M23 supportati da Ruanda e altri alleati come Usa e alcuni Paesi europei -, suor Anna Chiara (che divenne sin da subito madre superiora di quella comunità) rimase per 24 anni, affrontando guerre, povertà e difficoltà economiche del monastero. Ma soprattutto per portare avanti il compito di «testimoniare l’amore del Padre. Queste persone vivono sempre, costantemente nella paura verso qualsiasi cosa. La paura, spesso, rivela il nostro vero volto. Ma abbiamo un Padre da cui nessuno potrà mai separarci e a cui possiamo sempre ritornare».

La malattia e il rientro in Italia

Nell’aprile 2024 «il Signore passa “come un ladro” – racconta-: durante una riunione a Butende (Uganda), con i capi delle comunità cistercensi, perdo conoscenza. Avevo contratto la malaria cerebrale. Sono entrata in coma e dopo un mese sono stata trasferita al Policlinico Gemelli, a Roma. Lì un’equipe di giovanissimi medici ha cercato di svegliarmi e recuperare qualcosa della mia memoria. Il Signore ha ascoltato la preghiera di tanti miei amici, l’abbraccio di Dio mi è venuto incontro».

Durante la convalescenza matura la decisione di dimettersi da Madre superiora del Monastero Nostra Signora di Kikwit per fare ritorno a Vitorchiano. «Vivere serenamente la clausura in Africa – risponde a chi le chiede – lo si può fare fornendo agli altri la testimonianza di un Dio che si è incarnato. Se io mi sento amata riesco a generare amore, e magari dopo 24 anni nella stessa comunità, quelle persone hanno capito soltanto che ho voluto loro del bene. Su questo si può costruire».
Anche nei luoghi che soffrono di più – dalla periferia catanese al villaggio congolese – la storia di madre Anna Chiara ci dimostra che è possibile generare un germe di speranza.

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