“Che la Sicilia non perda il sangue giovane!”, è l’auspicio rivolto da Papa Francesco a studenti e docenti dello Studio teologico “San Paolo” di Catania, ricevuti in udienza.

Il Papa ha messo il dito su una triste e antica piaga della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno: l’emigrazione, negli ultimi anni addirittura aumentata, e ha aggiunto un appello a fare qualcosa“perché i giovani che vanno a lavorare fuori tornino”. Quello del ritorno è sempre stato un mito di chi emigrava, un sogno quasi mai realizzato, ma oggi sembra che molti dei giovani che emigrano vogliano tagliare del tutto i ponti con la terra di origine.

Eppure ci sono giovani catanesi, ex cervelli in fuga potremmo definirli, che tornati forzatamente a Catania hanno deciso di rimanere.

“Ecco cosa stiamo costruendo per restare in Sicilia”

«Quando è stata dichiarata la quarantena, nel 2020, tutti i fuorisede siamo tornati a casa. Il Covid è stato una tragedia, ma a me e ai miei amici l’isolamento ha dato la possibilità di chiarirci le idee su come costruire il nostro futuro», ci dice Simone Tomasello, giovane catanese con laurea magistrale in Design dei servizi al Politecnico di Milano, presidente del Collettivo Casa Nostra.

«In che modo? Vogliamo lavorare e crescere professionalmente nella nostra città, e aiutare anche altri a farlo. Catania ha grandi potenzialità, ma finora pochi le hanno sapute valorizzare e fra questi pochi manca quasi del tutto la classe politica. Ho sentito parlare di “Modello Catania”, per indicare le buone pratiche adottate molti anni fa dal Comune per attrarre investimenti e snellire le procedure per realizzare i progetti. Oggi invece Catania è un modello negativo e a questa situazione noi ci ribelliamo e abbiamo deciso di fare qualcosa e agire, invece di lamentarci aspettando che le cose cambino da sole.»

Come è nata questa voglia di cambiamento, e cosa state facendo di concreto?

«Quando l’isolamento è diventato insopportabile, con alcuni di quelli che abitavamo vicini abbiamo cominciato a riunirci nello scantinato di uno di noi. È emersa l’insoddisfazione, la stanchezza di vivere fuori e la conclusione è stata che finita l’emergenza avremmo fatto il possibile per rimanere a lavorare a Catania, non accontentandoci di un lavoro qualunque ma mettendo a frutto la formazione e le esperienze acquisite. Per questo è nato il Collettivo Casa Nostra, che già nel nome, secondo noi, indica qual è il suo spirito.»

Qual è il suo spirito?

«Collettivo significa una cosa che appartiene a tutti, a cui tutti possono partecipare e contribuire. Purtroppo a molta gente manca il senso del bene comune e da noi l’appartenenza collettiva viene sentita solo sporadicamente. Invece la città è “tutta di tutti”, scusa il gioco di parole, e proprio per questo abbiamo scelto di chiamarci così, perché tutti dobbiamo prenderci cura della nostra città, altrimenti rimarrà abbandonata a sé stessa.»

Cosa hanno fatto finora questi ragazzi ce lo racconta Enrica Oliveri, laurea magistrale in Direzione Aziendale a Catania, e master in Comunicazione per le industrie creative alla Cattolica di Milano, nonché socia di un’agenzia di marketing.

«Mensilmente organizziamo degli eventi che siano momenti di incontro e confronto fra chi partecipa. Il contesto è sempre culturale (foto, architettura, paesaggio, pittura, ecc.) ma senza focalizzare l’attenzione su un singolo argomento, per dare spazio a chiunque abbia già un progetto ben definito o anche solo un’idea da sviluppare. L’impostazione è piaciuta e infatti noi per primi siamo entrati in contatto con persone con interessi diversi, persone che a loro volta hanno avuto la possibilità di confrontarsi con altri, sia per progetti culturali che imprenditoriali.  Si è creato un circolo virtuoso ed è capitato più volte che chi aveva partecipato ci ha chiamati per avere un supporto ai suoi progetti.»

Mi parli di voi e di come operate?

«I soci attivi siamo nove, con percorsi di studio ed esperienze diverse: Economia, Design, Professioni Sanitarie, Architettura, Ingegneria e Belle Arti. Lo spirito del Collettivo è spingere le persone che non vogliono rassegnarsi ad emigrare a dirsi: a Catania non c’è quello che vorremmo? Facciamolo noi. Volevamo creare una rete dove persone con competenze diverse o affini fra loro potessero portare avanti le opportune iniziative, e per poterci presentare alle istituzioni con una certa credibilità ci siamo costituiti come APS, Associazione di Promozione Sociale. Gli eventi di cui parlavo sono il modo per mettere in contatto fra loro (e con noi) i potenziali fruitori, per far conoscere le competenze di ognuno. Vorremmo spingere le persone a riflettere sul fatto che a Catania le cose da fare ci sono e anche suscitare il desiderio di farle o di cercare “a casa”, non necessariamente altrove. Per esempio, una ragazza che si occupa di food design ci ha cercati per vedere se e come poteva realizzare un progetto. Stava studiando delle proteine non animali per creare polpette vegane, per sensibilizzare sulla riduzione dell’uso della carne, considerato l’impatto che gli allevamenti di bestiame hanno sui cambiamenti climatici, e al tempo stesso far conoscere il suo prodotto, le sue polpette. Noi le abbiamo dato qualche consiglio e abbiamo organizzato per lei – durante un evento in cui c’erano diversi stand – una presentazione della sua attività e da questo è derivato un contatto con un ristoratore che da allora ha inserito nel suo menu la ricetta di quella ragazza. Anche alcuni di noi, grazie a questo intersecarsi di competenze, hanno trovato lo spunto per avviare una propria attività imprenditoriale, per esempio creando un’agenzia di pubblicità.»

Complimenti a questi giovani. Essi smentiscono clamorosamente l’affermazione dello stilista Domenico Dolce, secondo il quale i giovani siciliani “Non hanno una dignità, stanno tutto il giorno su Facebook invece di andare lavorare”.

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