Al termine della concelebrazione eucaristica in Cattedrale a 30 anni dalla visita di Giovanni Paolo II a Catania, abbiamo intervistato l’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della CEI, monsignor Giuseppe Baturi, figlio della chiesa di Catania.

Monsignor Baturi, il Papa Giovanni Paolo II diceva a Catania: «Tu sei ricca con tante tue povertà». Rispetto a trent’anni fa quali sono le nuove povertà e di cosa è invece ricca Catania?

«Il Papa diceva di una ricchezza che sta nella tradizione, nella cultura, nella capacità di integrare popoli diversi: e la città di Catania è sempre stata un esempio, non soltanto di dialogo con altri popoli, ma di una creazione di nuove civiltà. Le povertà di oggi sono tante: non solo quella materiale, che spesso interessa fette di popolazione nella condizione di non toccare mai ambiti vissuti da altre fasce. Vi è la povertà educativa, quella sanitaria… ci sono difficoltà di accesso ad opportunità, non solo di lavoro ma anche di salute. Vi è poi una questione giovanile molto grave, segnalata dal fatto che in tanti vanno via, ma non è solo questo. C’è chi non riesce a trovare un proprio sviluppo di futuro dentro la nostra città, e anche la povertà che deriva come si legge, purtroppo, nei giornali dall’incapacità ad amare in modo gratuito, ad amare accogliendo la vita».

Qual è il punto di partenza per vivere una “responsabilità”? Occorre avere un progetto, una strategia o cos’altro?

«Il Papa chiedeva di ripartire da una ricchezza donata da Dio e che può essere motivo di gioia e di gratitudine: uno sguardo, direbbe Papa Francesco, contemplativo; di chi scorge la presenza di Dio dentro ogni circostanza. 
Se Dio abita con noi, possiamo entrare in qualsiasi ambito: possiamo portare la speranza, possiamo porre gesti di misericordia, di accoglienza, che costituiscono la possibilità di un vero futuro.
Il punto di partenza è una Fede, uno sguardo che diventa condivisione per un progetto comune».

Lei prima accennava al problema giovanile. Il Papa, 30 anni fa, ai giovani carcerati di Bicocca, diceva «non perdete mai la speranza». Ma noi giovani come facciamo a non perdere la speranza?

«Per esempio lasciandosi accompagnare da adulti capaci di interpretare le esigenze più profonde del cuore, di segnare una strada. Il problema della speranza pone la questione dell’adulto: non a caso in carcere la presenza dei giovani è affiancata dagli educatori. Talvolta tanti giovani smarriscono questa necessità; o gli adulti si trovano impreparati ad affrontare un dialogo con i giovani, che abbia come contenuto non la professione o la realizzazione di un progetto affettivo. Ma ragioni di vita e di speranza. Ecco, il grande problema dei giovani è trovare adulti capaci di comunicare questo».

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