“Ho incontrato Cicely per caso, come succede per le cose più belle della vita” – ha detto Emmanuel Exitu alla recente presentazione catanese del suo libro, Di cosa è fatta la speranza, edito da Bompiani. Un titolo emblematico, per la narrazione della vita di Cecily Saunders, inventrice delle cure palliative per i malati terminali.
“Cicely ha innestato l’ascolto dentro la medicina moderna” – continua lo scrittore. E tramite l’ascolto e l’osservazione dei pazienti che ha incontrato sul suo percorso, da infermiera e assistente sociale prima e da medico poi, ha compreso di cosa i morenti avessero bisogno: di avere alleviata la sofferenza, di compagnia umana e di dignità pur nel dolore. Ma soprattutto di senso: “è il contrario di quanto sostiene Maslow con la sua piramide dei bisogni.” Lo psicologo comportamentista statunitense, infatti, aveva sviluppato una teoria sui differenti livelli di bisogni, da quelli di base (quelli fisiologici) a quelli più complessi, come le relazioni, il senso di appartenenza, l’autostima e la realizzazione dei propri sogni. Contrariamente alle apparenze, – sono parole di Exitu – “prima dei bisogni primari c’è la domanda di senso ed è questo che guida le cure palliative” che, come il pallium (mantello), avvolgono il malato, restituendogli protezione, sollievo e comprensione empatica.
Ma cosa ha sostenuto Cecily Saunders nella caparbia missione di costruire un luogo, non esistente prima, in cui dare cure e conforto ai malati terminali? Perché “dal dolore nessuno si salva, il dolore è capace di rastrellamenti capillari, il dolore trova tutti.” Lo sa bene lei, che ha attraversato da allieva infermiera la seconda guerra mondiale, che ha perso l’amato proprio per una malattia incurabile e che dovrà rinunciare alla sua carriera per via di un dolore cronico alla schiena. “Non saremo certo noi a dare senso a tutto questo” – si dice la protagonista. “Possiamo tentare di fare il bene, però. Quell’evidenza la colpisce in testa con il pugno di una vertigine” e sarà questa convinzione profonda a guidarla nella sua opera. Ma non solo: a guidarla anche la fede, ricevuta dall’incontro con lo scrittore C. S. Lewis e sostenuta dalla compagnia di suor Teresa, che la accompagnerà nella costruzione del primo hospice, pur travagliata come “un buio che brilla di mistero” ma sempre attratta dalla promessa che nella vita continua a chiamare. “Un passo dopo l’altro, un passo dentro l’altro”: qui la scrittura di Exitu ricalca quella di Eliot.
Ingrediente fondamentale del libro è, infatti, una scrittura coinvolgente, che scava in profondità e che amalgama echi evangelici e letterari: “Emmanuel Exitu – osserva Daniele Mencarelli, scrittore e poeta – mette assieme tutti gli ingredienti che portano al grande romanzo. Una protagonista straordinaria, una storia che non cede mai il passo, e, su tutto, una scrittura viva, capace di essere testimone della più misteriosa delle virtù.” Cecily, le cui intuizioni sono ancora oggi alla base della moderna concezione della cura dei malati gravi e sono riconosciute dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come il punto di riferimento per migliorare le condizioni di vista dei pazienti cronici e terminali, è resa viva dal racconto mai freddo di Exitu, che ci conduce con passo sicuro a interrogarci sul valore di una vita, sia essa del luminare della medicina che del malato più povero e socialmente negletto. Per Cecily non c’è un confine oltre il quale non si possa più tentare nulla, non come accanimento terapeutico, ma come cura della persona. La persona, pur avendo superato la linea di una possibile sopravvivenza, continua a richiedere e a meritare attenzione e speranza.
E se per dargliela, occorrerà rivolgere tutti i letti in obliquo verso la finestra invece che verso il muro, o trasportare una malata a vedere per l’ultima volta la neve o fare passeggiare un cucciolo di elefante in corsia, Cecily farà in modo di realizzarlo. “Cecily vuole andare in mezzo” ai malati, “un po’ alla cieca come loro, sempre inquieta e spesso bestiale come loro, come sempre carnale, egoista come sempre, interessata e ottusa come sempre, eppure sempre in lotta, in cammino sempre, a riprendere la marcia in avanti.” La ragione della sua speranza, infatti, “non è il lieto fine” che apparentemente – visto il tipo di malati con cui avrà a che fare – le mancherà sempre, ma la rinascita dell’umanità delle persone che accompagnerà, l’allargamento dei loro orizzonti fino all’intuizione o alla certezza di un Bene presente che li abbraccia.
Sono alcuni degli spunti che la lettura di questo romanzo offre, ma ce ne sono anche altri che, via via lasciandosi trasportare dal racconto, il lettore potrà cogliere e custodire: si tratta, infatti, di un libro che invita a soffermarsi, a tornare indietro, ad appuntarsi delle frasi per poi poterci riflettere e assaporarle con calma. Un romanzo denso di significato che dice molto anche al nostro tempo, funestato da guerre e invasioni che sembrano sbarrare la strada alla speranza e alla ricerca di senso. Senza fornire facili ricette, l’autore ci guida ad andare oltre le apparenze di insignificanza e assurdità della sofferenza e della crudeltà per cogliere già in esse il Bene presente.