dalla Consulta delle Aggregazioni Laicali
“Voi restate in città” dice Gesù agli Apostoli e ripete il nostro Pastore alla comunità.
Ma in quale città? E in che modo?
In città si resta responsabilmente per osservare, giudicare, agire.
In città, per noi cattolici che riceviamo lo Spirito nel giorno di Pentecoste, si resta innanzi tutto per amore, per amore di Catania e dei suoi abitanti, l’una e gli altri devastati da un incalzante degrado morale e da un profondo dissesto che travolge, oltre all’ente comunale, l’intera economia cittadina, tante famiglie che hanno bisogno di sapere se esiste ancora una speranza.
Poi si resta per servire e per alimentare la Speranza perché vi sono esempi virtuosi e modelli positivi da imitare ed è possibile, ne siamo certi, suscitare una profonda conversione in noi cittadini e nella politica, tutta la politica, affinché finalmente ci si occupi tutti insieme del bene comune.
Si resta per osservare la profondità del degrado umano, che genera indifferenza, alimenta la cultura dello scarto ed aggrava i molteplici problemi che affliggono il territorio e colpiscono in particolare i più deboli. Di fronte alle tante emergenze , ma soprattutto di fronte all’emergenza educativa, culturale, sociale e politica della nostra Catania, si rimane confusi, smarriti di fronte alla vastità dei problemi ed incapaci di individuare percorsi di riscatto e positive soluzioni.
Si resta per giudicare.
Giudicare il potere politico (comunale, regionale e nazionale) più interessato alla gestione del potere che alle donne e agli uomini da cui ricevono mandato ed in nome dei quali esercitano la difficile arte del governo.
Si resta per giudicare noi stessi, la nostra indifferenza e superficialità che ci fanno cedere alla tentazione di voltarci dall’altra parte e di attribuire tutte le responsabilità del degrado alla classe politica; giudicare la nostra incapacità di compassione; l’autoreferenzialità che ci fa ritenere che il mondo inizi e finisca dove siamo e con le cose che facciamo.
Si resta per giudicare il corpo sociale, la diffidenza verso i diversi, la difficoltà di accoglierci reciprocamente se non abbiamo lo stesso colore della pelle, la stessa lingua e cultura, la fede nello stesso Dio, e rinchiuderci nei ghetti delle nostre certezze.
Si resta in città soprattutto per agire.
Agire per abbattere i muri che abbiamo eretto negli anni e costruire ponti. Ponti di Speranza, che si fondano sulla percezione che nessuno si salva da solo, che ciò che ciascuno di noi fa, va integrato con il lavoro degli altri e sperimentare così la gioia di progettare assieme storie di solidarietà che ci consentano di arrivare fino agli ultimi degli ultimi.
Agire per rivendicare il diritto all’esercizio della sussidiarietà, partendo dalla denuncia dell’invasività delle amministrazioni e della politica, per sederci ai tavoli istituzionali con la consapevolezza di essere parte attiva di questa città, che si spende ogni giorno, attraverso aggregazioni e associazioni di volontariato, per la tenuta del tessuto sociale.
Si resta, infine, perché siamo discepoli di Cristo Risorto, Signore del tempo e della storia. Siamo certi che seguendo la Sua parola e il Suo Spirito ridaremo a questa città la dignità e la bellezza, la pace e la giustizia.
La comunità diocesana, riunita oggi per la veglia di Pentecoste, si impegna a “restare in città” per “costruire ponti” fra tutte le associazioni laicali e caritative della Diocesi, per lavorare insieme alle altre confessioni religiose presenti in città, al volontariato laico e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Vogliamo mantenere alta la Speranza nel futuro e realizzare il bene comune