di Don Antonino De Maria
Nel suo ennesimo viaggio “ecumenico” il Papa si è recato nella Romania che si è da tempo lasciata alle spalle la dittatura di Ceausescu, terra di Santo Stefano il Grande, venerato da cattolici e ortodossi come difensore della cristianità assalita dai turchi ottomani.
Questa terra bellissima, da sempre luogo di accoglienza, nella quale convivono Romeni (valacchi, moldavi, discendenti dei Daci), ungheresi e tedeschi, riceve in un clima di serenità, dopo vent’anni dalla visita straordinaria di San Giovanni Paolo II, Papa Francesco: sin dal primo giorno accolto con onore e benevolenza non solo dalle autorità nazionali ma anche dal Patriarca Daniel, con il quale nella splendida nuova basilica patriarcale, edificata anche con un contributo di San Giovanni Paolo II, è stato pregato il Padre Nostro, accompagnato dai canti pasquali del coro cattolico, prima, e dal coro della basilica patriarcale (che fu ospite a Catania per un convegno ecumenico organizzato presso l’Università statale dal sottoscritto), dopo. Un gesto enorme pur in una situazione di non piena comunione accompagnato dalla gioia del popolo presente e dalle parole con le quali il Patriarca ha espresso la sua stima al Papa per il commento spirituale e pastorale del Padre nostro offerto dal Santo Padre. Il Papa ha poi salutato coloro che si trovavano fuori dalla Basilica con il saluto pasquale: Cristo è risorto, in rumeno. Il Papa ha invitato la Chiesa ortodossa a camminare insieme: in fondo il popolo romeno ha questa sensibilità, poiché non comprende uno stato di divisione e, come in quella visita di fronte a Giovanni Paolo II e al patriarca Teoctist, continua a gridare “Unitate, unitate”. Purtroppo anche il popolo romeno, così legato alla propria tradizione cristiana, non comprende come ancora le ferite della storia influiscano sul presente.
La Romania porta con sé le situazioni che la sua storia politica ha generato, vivendo al suo interno, una maggioranza ortodossa, e una minoranza cattolica di rito latino e una di rito bizantino, che ha sofferto tantissimo durante il comunismo per la politica di soppressione e unificazione forzata con gli ortodossi: se alcuni, abbindolati da promesse di carriera, aderirono a questo progetto, molti hanno testimoniato la loro fedeltà fino alla morte. Ed è a questi testimoni che il Papa viene a rendere omaggio con la canonizzazione. Oggi, dopo la rivoluzione che ha defenestrato Ceaucescu, la Chiesa Greco Catolica unita cu Roma ha ripreso vitalità e benessere, testimoniando con la sua capacità di dialogo un atteggiamento di pace nei confronti dei fratelli ortodossi, nonostante il problema della restituzione delle chiese e dei beni che la Chiesa possedeva prima della fusione forzata.
La beatificazione di 7 vescovi della Chiesa Greco-catolica che hanno testimoniato la fede durante la dittatura comunista ha un valore molto importante: essi hanno testimoniato l’importanza della comunione con Roma che contraddistingue la fede della loro Chiesa e, nello stesso tempo, indica la stima e l’importanza che il Papa dà a questa Chiesa Cattolica sui iuris. È anche l’invito ad entrambi le chiese di rito bizantino, cattolica e ortodossa, ad andare oltre le recriminazioni e le ferite del passato per vivere un tempo di riconciliazione e di cammino comune, intelligente e credente. La Chiesa in Romania può diventare luogo di vera testimonianza cristiana se ci si lascia alle spalle, con fede e intelligenza, cioè senza negare il male che ci si è reciprocamente inferto ma superandolo in un atto di perdono reciproco e di riconoscimento, il doloroso passato.
Il Papa riconosce una intelligenza della fede al Patriarca Daniel che sa bene come all’interno della sua Chiesa c’è un grande desiderio di unità e di superamento delle barriere tra le due comunità, un desiderio che non passa solo attraverso la quotidianità e la condivisione ma che ha dato vita a gesti che hanno imbarazzato lo stesso Daniel come il caso del Metropolita del Banato, Suo Padre Spirituale, che partecipando alla consacrazione della Cattedrale Greco-Cattolica si è accostato per ricevere la comunione. Il popolo che ha gridato davanti a Teoctist e Giovanni Paolo II “unitate, unitate” spesso si muove da una chiesa all’altra per condividere momenti di festa e di devozione cristiana.
L’omelia della Divina Liturgia celebrata a Blaj per la beatificazione di 7 vescovi morti a causa della persecuzione comunista prende spunto dal vangelo del cieco nato (Gv 9, 1ss). Alla incapacità di vedere come persona il cieco e ciò che gli è accaduto, divenuto tutt’al più oggetto di discussione, si contrappone l’agire di Gesù che mette al centro la persona che è il vero cuore della legge del Sabato: “Tutta la scena e le discussioni rivelano quanto risulti difficile comprendere le azioni e le priorità di Gesù, capace di porre al centro colui che stava alla periferia, specialmente quando si pensa che il primato è detenuto dal “sabato” e non dall’amore del Padre che cerca di salvare tutti gli uomini (cfr 1 Tm 2,4)”. Il cieco deve convivere con la propria cecità e quella degli altri che mettono al centro non la persona ma interessi particolari, etichette, teorie astratte, ideologie… Cristo agisce cercando la persona con il suo volto, le sue ferite: “Fratelli e sorelle, voi avete sofferto i discorsi e le azioni basati sul discredito che arrivano fino all’espulsione e all’annientamento di chi non può difendersi e mettono a tacere le voci dissonanti. Pensiamo, in particolare, ai sette Vescovi greco-cattolici che ho avuto la gioia di proclamare Beati. Di fronte alla feroce oppressione del regime, essi dimostrarono una fede e un amore esemplari per il loro popolo. Con grande coraggio e fortezza interiore, accettarono di essere sottoposti alla dura carcerazione e ad ogni genere di maltrattamenti, pur di non rinnegare l’appartenenza alla loro amata Chiesa. Questi Pastori, martiri della fede, hanno recuperato e lasciato al popolo rumeno una preziosa eredità che possiamo sintetizzare in due parole: libertà e misericordia.” Ancora oggi le ideologie, dice il Papa, tentano di sradicare il popolo dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose, seminando paura e divisione e togliendo linfa alla vita: per essere testimoni di libertà e misericordia occorre saper coltivare le proprie radici, facendo prevalere la fraternità e il dialogo sulle divisioni, una fraternità del sangue nella quale cristiani di comunità divise si sono ritrovati più vicini e solidali.
“Camminare insieme” significa ancora una volta superare gli steccati che un cristianesimo ridotto ad ideologia può generare e il sangue dei martiri può rendere feconde le radici di un popolo che in Cristo ha trovato la verità e la bellezza della vita vera.