La legge sul suicidio assistito, approvata nelle scorse settimane dalla Regione Toscana, ha acceso il dibattito politico nel nostro Paese, e quasi tutti i partiti dell’opposizione non solo plaudono a questa decisione, ma hanno colto la palla al balzo per caldeggiare una simile scelta a livello nazionale. Stupisce il fatto che solo tre esponenti di FI, FdI, Lega, dell’Assemblea Regionale Toscana abbiano fatto opposizione alla suddetta legge con un formale ricorso al Collegio di garanzia. Tra i politici di quell’Assemblea non ce ne erano altri convinti del valore della vita fino al suo naturale compimento?
I vescovi toscani, con voce unanime, hanno manifestato il loro dissenso per una legge, come questa, che favorisce una cultura di morte.
Chi è favorevole all’eutanasia e al suicidio assistito parla di “leggi di morte degna”. Ma si utilizza un concetto errato di dignità umana per rivolgerlo contro la vita stessa. Nel documento del Dicastero per la Dottrina della Fede“Dignitas infinita” (2024),leggiamo: “si deve ribadire con forza che la sofferenza non fa perdere al malato quella dignità che gli è propria e, inoltre, essa può diventare occasione per rinsaldare i vincoli di una mutua appartenenza e per prendere maggiore coscienza della preziosità di ogni persona per l’umanità intera”.
Accompagnare alla morte, non provocare la morte
E allora, quali comportamenti seguire? Innanzitutto, la solidarietà, la vicinanza: la dignità del malato in condizioni critiche o terminali chiede a tutti sforzi adeguati e necessari per alleviare la sua sofferenza. Inoltre, va sempre privilegiato il diritto alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati. Ciò comprende anche l’uso di opportune cure palliative. Evitando, però, ogni accanimento terapeutico o intervento sproporzionato. Queste cure rispondono al «dovere costante di comprensione dei bisogni del malato: bisogni di assistenza, sollievo dal dolore, bisogni emotivi, affettivi e spirituali». In altri termini, la persona deve essere considerata nella sua integralità. Un tale impegno di solidarietà aiuta a superare la tentazione di eliminare la propria o la vita altrui, che sta sotto il peso della sofferenza e aiuta a capire che in ogni situazione (anche la più dolorosa) la vita umana non smette di essere degna e perciò non può essere soppressa. Aiutare una persona a togliersi la vita è, pertanto, un’oggettiva offesa contro la sua stessa dignità, anche se si compisse un suo desiderio. Infatti, come afferma Papa Francesco, «dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare qualsiasi forma di suicidio. La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti». E’ come dire che si tratta di un principio di legge morale naturale, che la retta ragione scopre già nella coscienza di ogni uomo e di ogni donna. Al cristiano, inoltre, occorre ricordare che la vita è un dono, datoci da Dio, e non possiamo disporne di testa nostra.
Ma, in generale, a livello politico, ciò che colpisce è il silenzio assordante dei cattolici impegnati attivamente in politica. Cosa vuol dire questo silenzio? Forse qualcuno ha il timore di esporsi, prendendo posizioni che non seguono la moda delle opinioni più comuni? O forse, per altri il silenzio è dovuto alla condivisione della legge? C’è stato anche qualche esponente politico cattolico che, pubblicamente, ha detto che la legge sul suicidio assistito davvero è necessaria, perché indica rispetto per la dignità e la libertà del malato terminale. Infatti, la scorsa settimana, durante una nota trasmissione televisiva su un canale nazionale, una parlamentare del Movimento 5 Stelle ha dichiarato di essere cattolica e di essere d’accodo con la legge sul suicidio assistito. Non so come la parlamentare potesse mettere insieme le due affermazioni così contraddittorie e non so se conosce ciò che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica su questo argomento (vd nn. 2276-2277) e, ancora, se è al corrente del magistero di Papa Francesco. Posizioni di questo tipo ci inducono a pensare che per qualcuno essere cattolico è un’opinione che corrisponde a criteri “fai da te”, a proprio uso e consumo, seguendo quella che Benedetti XVI chiamava la “dittatura del relativismo”. Ad ogni modo, emerge a tutto tondo la questione di una carente formazione cristiana. Se la nostra Costituzione Repubblicana è permeata da una visione che si ispira alla filosofia politica del personalismo cristiano, ciò è dovuto al fatto che nell’Assemblea Costituente c’era un folto gruppo di cattolici con un solido bagaglio formativo, alcuni dei quali provenivano dalla FUCI di don GiamBattista Montini (poi Paolo VI). Pertanto, penso che se si vuol dare seguito concreto alla “Rete di Trieste”, e alla neo-associazione “Comunità Democratica”, le nostre comunità ecclesiali devono preoccuparsi affinché i politici cattolici presenti nei vari partiti ricevano una seria formazione cristiana. Ciò è una premessa necessaria affinché essi possano dialogare tra loro, evitando la facile tentazione di una “diaspora culturale”, arrivando, infine, a soluzioni condivise, sui valori morali fondamentali, come questo del fine vita. E, anzi, questo stile di essere presenti in politica li renderà capaci di dialogare anche con coloro che hanno posizioni differenti. Quanto detto adesso, fra l’altro, corrisponderebbe agli appelli di Giovanni Paolo II, ripresi fino ai giorni nostri da papa Francesco.
E, allora, i cattolici impegnati in politica, smetteranno di essere “afoni” e saranno capaci di raccogliere questi appelli dei due pontefici, per rispondere alle sfide della società attuale, dando il loro contributo per il bene comune del nostro Paese?