di Carlo Anastasio*

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo: almeno questo ci è chiaro.

Non siamo Trump, e non vogliamo diventarlo. Non siamo e non vogliamo diventare suoi simili né suoi accoliti né suoi sudditi.

Più difficile è capire ciò che intendiamo essere.

Con Trump il bullismo è andato al potere negli Stati Uniti d’America. La sua prima presidenza, ottenuta con il voto degli Stati ma incrinata dalla sconfitta aritmetica nel voto popolare, sembrò un incidente della Storia, e l’inerzia positiva del sistema statunitense – politica, economia, informazione, opinione pubblica – ostacolò in parte le male azioni di questo narciso senza scrupoli, gli negò la pienezza del comando. Però adesso l’inerzia ha cambiato verso, il sistema si è imbarbarito, in particolare i giganti dell’economia e dell’informazione sono saliti subito – per tornaconto – sul carro del vecchio che avanza: Trump ha avuto un’incoronazione piena, è stato scelto dal Paese nettamente e con convinzione, e nulla più lo frena. In campo internazionale scatena guerre commerciali, minaccia conquiste territoriali, rigetta gli accordi sul clima e organismi sovranazionali come l’Oms. Sul piano interno smantella le politiche di inclusione sociale, emana diktat sul genere sessuale dei suoi connazionali, arriva ad attribuire un disastro aereo a personale delle torri di controllo con minorazioni intellettuali o psichiche, anche se – bontà sua – non aggiunge che per migliorare la razza bisognerebbe disfarsi dei disabili.

E urla, incatena e deporta i migranti, fa le facce feroci, perché ovviamente punta sull’immagine da boss spietato per intimorire. E si proclama scelto da Dio, echeggiando il «Deus lo vult» dei crociati e il «Gott mia uns» dei nazisti. «Drill, baby, drill» ha tuonato appena reinsediato, spronando a bucare il mondo a caccia di petrolio e gas nonostante le catastrofi del riscaldamento globale. «Après moi, le déluge» avrebbe potuto aggiungere Luigi XV. Trivella, ragazzo, trivella; e finisca pure il Pianeta, tanto, dopo di me, sarà il diluvio.

Lo schema del superbullo stelle-strisce non è nuovo. Basta guardare al secolo scorso per trovare figure di capi che il comando lo hanno guadagnato anch’essi attraverso elezioni e poi lo hanno esercitato con furiosa prepotenza comunque e dovunque potevano. È eccessivo citare Hitler e Mussolini? Lo sapremo col tempo. Fino a che non furono annientati, Hitler e Mussolini pretendevano di prendersi con la forza quel che volevano. Ci auguriamo che il quarantasettesimo capo della Casa Bianca non appartenga alla stessa specie – ci verrebbe ancora da dire razza – del Führer dei tedeschi e del Duce degli italiani.

Trump rischia di finire vittima del suo stesso gioco al massacro

In ogni caso, Trump che proclama di volersi annettere il Canale di Panama e la Groenlandia, che disegna il Canada come cinquantunesimo Stato degli Usa, che progetta di svuotare la Striscia di Gaza dai palestinesi e di trasformarla in un resort, è così diverso da Putin che ha tentato di fagocitare l’Ucraina? E, alla base della scala evolutiva della cattiveria, è così diverso da loro due il bulletto che a scuola si appropria della merenda del ragazzino timido?

È la banalità del bullo. Anche qui, lo schema non è nuovo. Del resto l’uomo che azzanna l’uomo, homo homini lupus, esiste dacché l’uomo esiste. La disumanità è gemella siamese e opposta dell’umanità, come Caino è fratello di Abele. Ma poi può sempre capitare che il bullo si imbatta in un altro più bullo di lui, e in questo caso può diventare dominante – al posto della forza della ragione – la cupa legge della forza.

Trump non è il padrone del mondo, quantunque tenti di apparire tale, e rischia di finire vittima del suo stesso gioco al massacro. Musk, Bezos e compagnia di iper-ricchi e iper-tecnologici, i cosiddetti tecno-oligarchi, gli fanno per ora da vassalli per avere la poderosa sponda della Casa Bianca nelle loro campagne di conquista planetaria dell’intelligenza artificiale, che è la sconfinata nuova frontiera della scienza e della tecnica, ma anche del business e del controllo e condizionamento degli individui. Dall’altra parte c’è soprattutto la rampantissima Cina, competitore globale nella geopolitica e nell’innovazione sia degli Stati Uniti sia proprio di quei tecno-oligarchi, che già oggi ne subiscono la concorrenza.

Si profila così una sfida mondiale – speriamo non una guerra dei mondi – nella quale si vedrebbero probabilmente Paesi anche americani o europei che si appoggiano alla Cina in risposta all’aggressività di Washington («O Franza o Spagna, purché se magna» era il mantra dell’Italia delle Signorie). E la fine di Trump potrebbe venire dall’estero oppure anche da uno o più dei galli del suo stesso pollaio, appunto i Musk, Bezos eccetera, qualora a un certo punto costoro smettessero di ritenerlo utile ai loro interessi e appetiti.

In Occidente la democrazia liberale sull’orlo del precipizio

Ma intanto Trump c’è e produce danni dilaganti. A colpi di ordini esecutivi, firmati a raffica, sovverte le regole della buona creanza democratica e si atteggia a comandante supremo e indiscusso degli Usa, con una iattanza mai vista prima sul piedistallo dei Lincoln, dei Kennedy, o persino dei Nixon. C’è un despota insomma al vertice non soltanto della maggiore potenza che abbia mai abitato la Terra, ma anche del maggiore bastione della democrazia liberale. E se questo fortilizio dovesse cadere, potrebbe cadere tutto il complesso democratico-liberale dell’Occidente (con l’Estremo Oriente del Giappone), come un castello di carte, la «house of cards» di una Casa Bianca occupata dal male, che una famosa serie tv ha preconizzato.

La democrazia liberale è in pericolo, ecco la vera novità.

I segnali d’allarme abbondano, in America e in Europa. Soprattutto è sotto attacco la ripartizione dei poteri (vedi Montesquieu) tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e il reciproco controllo e bilanciamento fra i tre pilastri della nostra struttura democratica. Il metodo è semplice: il capo, con l’arma del consenso popolare, riduce sempre più il ruolo del parlamento e si applica a mettere in riga la magistratura, in maniera da accentrare tutto il potere nella propria persona. In più, usa il consenso popolare come ordalia oltre che come arma: Trump e i populisti della stessa risma, quando la giustizia li accusa o condanna per reati, o comunque li ostacola, sostengono sdegnati di essere nel giusto perché il popolo li ha eletti, quasi che il responso delle urne fosse il giudizio di Dio. Mentre il popolo è sì sovrano, ma dev’essere sovrano nel tempo, cioè deve avere sempre la possibilità di cambiare idea e posizione: perciò un’architettura stabile di regole, a partire da una legge fondamentale o costituzione, è precostituito per impedire che un temporaneo consenso popolare consenta al capo di turno l’arbitrio di fare tutto quel che vuole, senza limiti e contrappesi, e di intaccare la permanenza dello Stato di diritto e in definitiva la libertà degli elettori, asserendo che «il popolo lo vuole».

Avere il coraggio di prendere posizione

È a fronte di tutto questo che ci tocca fare le nostre scelte. Eugenio Montale ci ha aiutato con la straordinaria efficacia della sua poesia a esprimere il nostro rifiuto: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ma non possiamo permetterci il lusso di condividere i versi iniziali: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe…». Dobbiamo invece dare forma all’animo nostro e squadrarlo con la parola, prima che sia troppo tardi. Dobbiamo porci domande e avere il coraggio delle risposte. Ci rassegneremo per convenienza, o per quieto vivere, o perché «così vanno le cose», al degrado della democrazia liberale, alla legittimazione del bullismo di Stato, al dominio incontrastato della legge del più forte, e anche, da cittadini dell’Unione Europea, a essere vaso di coccio tra vasi di ferro? Se la risposta è no, è già l’ora di decidere contromisure, e innanzitutto, di alzare la voce.

*Giornalista professionista,  esperto di politica estera

(Foto ANSA/SIR)

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