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«Il fatto della nascita è sempre stato al centro del mio mondo di scrittore, sia che lo maledicessi sia che lo benedicessi. La ragione, in fondo, è semplice e nel momento in cui uno è concepito ed esiste, si gioca l’inizio di tutta la sua storia». Con questa riflessione Giovanni Testori ci consegna le ragioni che lo portarono nel 1980 alla realizzazione di Factum est, monologo di un feto – scandito in quattordici stazioni lungo una via crucis di respiro esistenziale – che attraverso la propria voce chiede di venire alla luce incarnandosi in una parola che da iniziale balbettio si fa supplica di salvezza per sé e preghiera di speranza per il padre e la madre che lo vogliono rifiutare. Un’opera che approda a Catania sabato 8 febbraio alle 20:30 al Teatro Nuovo Sipario Blu, all’interno della rassegna teatrale VivoTeatro organizzata dalla Fondazione Francesco Ventorino in collaborazione con il Centro Culturale di Catania. Lo spettacolo prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, nato con la regia di Emanuele Banterle, vedrà in scena l’attore Andrea Soffiantini.
Insieme a Soffiantini approfondiamo storia e tematiche che attraversano il monologo testoriano.
In fondo possiamo considerare Factum est figlio del vostro incontro da ragazzo con Testori. Non è un segreto il fatto che il testo teatrale fu pensato e scritto da Testori proprio per lei. Quanto per la sua vita è stato determinante questo incontro?
Per me è stato l’approdo alla possibilità di poter affrontare professionalmente questo mestiere. Con gli amici del Teatro dell’Arca di Forlì in quegli anni condividevamo la passione di comunicare parole che avevano bisogno di essere dette e condivise. Ricordo i testi – come i samizdat e la poesia clandestina russa – che non potevano essere ascoltati ufficialmente. Si trattava di una parola in un certo senso negata. Parole che essendo state nascoste dovevano essere dette e condivise, amplificate davanti a un pubblico. Così attraverso la nostra passione queste parole potevano finalmente tornare ad essere ascoltate. Ma in che forma? Era la forma di ragazzi che – come diceva Testori – non avevano né il vizio né le virtù dell’Accademia. Nessuno di noi aveva fatto scuola però rispetto alle parole avevamo questa semplicità e questa sincerità nel porgerle. È così che Testori ci ha trovato. Naturalmente ci ha dato una forma, una regola molto vincolante, che era appunto quella della sua parola. All’inizio non ci sembrava vero di dover essere costretti a recitare fermi e gli dicevamo “Maestro, noi se ci muoviamo allora sì che riusciamo ad esprimere”. Lui invece si concentrava solo sulla parola. E così è stato. Questa è stata per me una palestra, un insegnamento formidabile. Racconto sempre che un giorno eravamo insieme a Milano al settimo piano della Rinascente. Scendendo dalla scala mobile gli dissi in maniera ingenua “Maestro, io vorrei con questo mestiere esprimere la vita, però quando ci provo non so che balbettare”. Dopo circa dieci giorni – eravamo insieme dentro una chiesa a Lodi vecchio per registrare “Interrogatorio a Maria” per la TV – portò con sé le prime pagine di Factum est che iniziavano proprio con un balbettio. Per questo per me l’incontro con lui fu doppiamente magistrale. Perché non mi diede appena un testo teatrale ma accolse totalmente quello che era il mio desiderio di fare l’attore. E iniziammo proprio con un balbettio. Aveva raccolto lo spessore del mio bisogno e questo “essere” (il feto) documentava il fatto che aveva a fianco da sempre il grande Essere che l’aveva voluto: l’Eterno. Così Testori raccoglieva anche quell’esperienza religiosa che ci accomunava tutti. In maniera vitale e quindi per tre volte magistrale.
Verbum caro factum est: il Verbo si è fatto carne. Nell’opera di Testori assistiamo al farsi parola del corpo attraverso una gestazione graduale, un dialogo che non può esistere fuori dalla corporeità. Cosa significa ogni volta per lei incarnare con voce e corpo questo drammatico monologo?
L’esercizio che provo a fare – affidandomi anche al mestiere che a poco a poco negli anni si è affinato – è quello di lasciare che questa parola viva. Testori parlando del Neorealismo affermava che i neorealisti per costruire un set dovevano occuparsi del come, cioè di come è fatta ad esempio una cucina, una tazza, una minestra. Ma Testori ci ricorda che tutte queste cose – la cucina, la tazza, la minestra – in fondo per farle esistere basta chiamarle per nome, senza bisogno di costruirle in maniera verosimile. Basta chiamarle con la parola e ti saltano al pennello, alla penna. È come se le cose vivessero senza bisogno di costruirle. Basta chiamarle perché queste parole ci sono già e quindi basta pronunziarle e riescono a vivere. Vedo che nella domanda usavi anche la parola dialogo. Questo aspetto in Factum est l’ho cominciato a guadagnare in quest’ultima fase. In realtà uso la forma del monologo ma è vero che in ogni atto sono fatto. Questo essere (il feto) è frutto di un rapporto e quindi i protagonisti all’interno di questo monologo sono diversi: c’è anche il padre, la madre e l’Alterità. Attraverso la parola Testori ha cercato di dare ragione a queste realtà che vengono sollevate alla massima dignità. Può darsi che negli anni passati trattassi questo testo come un soliloquio però adesso mi è più chiaro.
Qual è il messaggio che ancora “insorge” – per usare un termine caro a Testori – da questo monologo in tempi così critici come i nostri, feriti da guerre e violenze e interessati da nuove sfide che mettono sempre più a dura prova la difesa della vita in ogni situazione?
Una volta invitai la direttrice del Teatro Parenti Andrée Ruth Shammah ad assistere con i suoi dipendenti a Factum est. Certo il Teatro Franco Parenti non è sicuramente un teatro che ha una linea antiabortista! Ma lei rimase molto colpita e mi disse a proposito che proprio perché il monologo parla e arriva alla madre, proprio perché è presente questo nucleo e questa profonda relazione, quell’essere non è solo e allora non si può, non si può farlo finire. Mi colpì l’osservazione di questa donna in merito ad un’opera che non può essere certo definita confessionale. Tutto questo per dire che forse l’insurrezione che porta Factum est è quella di metterti di fronte non soltanto al feto ma anche al padre e alla madre che sono presenti. Saranno sempre fissi lì questi tre personaggi. Nello sguardo loro c’è la memoria del fatto accaduto. Queste tre figure presenti possono farci capire che noi siamo coinvolti, ciascuno è coinvolto. In qualsiasi atto siamo coinvolti perché è un atto che non interessa e compete soltanto alla vittima ma quest’ultima è vittima proprio perché è all’interno di un rapporto. È di qualcuno, c’è stato qualcuno che l’ha creato.
Nell’anno dedicato alla speranza che cade in un’epoca contrassegnata dalla dimensione virtuale e dall’avvento dell’intelligenza artificiale, quale può essere il compito per l’arte e in particolare per il teatro alla luce dell’insegnamento profetico di Testori?
Il tentativo dell’uomo è proprio quello di togliere i due aspetti della creazione: che per fare uno ci vuole uno e un altro! Le cose che concepisci non sono concepite da sole. C’è sempre un rapporto. Il rischio è di prendere questa scorciatoia attraverso questo strumento che ci consente di generare a prescindere da questo rapporto. Chi lo sa perché noi abbiamo questo demone? Forse è un tentativo isterico di imitare Dio. Ma resterà senza rimedio «cadrai tu / rovinerai / terra che / rifiuti vita / vita spegni / dentro ventre». La speranza si fonda ancora nella commozione, nella pace che trovi quando vedi che una cosa nasce per un incontro tra un bisogno tuo e uno sguardo che ti viene incontro.