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Terra Santa: la convivenza si impara sui banchi di scuola

«Non ci sarà pace nel mondo finché non ci sarà pace a Gerusalemme» soleva ripetere spesso il professor Giorgio La Pira, il “sindaco santo” di Firenze. E questo sarebbe possibile soltanto quando saranno superati gli “screzi” e le lacerazioni tra quei popoli, figli di Abramo, che in Terra Santa coesistono ma non convivono.

Dal 7 ottobre 2023 il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca dei latini di Gerusalemme, ha invocato a più riprese la cessazione totale del conflitto su Gaza tra Hamas e Israele. Nell’intervista rilasciata ad Avvenire, e pubblicata domenica 19 gennaio – giorno in cui ha avuto il via quella che viene definita una tregua tra le parti già barcollante – , il porporato ha dichiarato: «La tregua è un passo necessario. Siamo contenti, anche se siamo davanti a una tregua molto fragile che ha davanti ancora molti ostacoli, ma bisogna incoraggiare questi passi».
E sulle relazioni tra Chiesa ed Ebraismo ha commentato: «L’importanza delle relazioni tra noi deve prevalere sulle attuali incomprensioni. Dobbiamo lavorare per superarle e per rendere le nostre relazioni ancora più forti e salde. I momenti di crisi ci sono e questo lo è, però devono diventare una opportunità per approfondire e chiarire le incomprensioni che ci sono state. Senza avere la pretesa di essere sempre d’accordo su tutto».


La testimonianza di don Lirio Di Marco: «Il clima di tensione c’è sempre stato.
I cristiani sono il 2% della popolazione israeliana, vanno via perché non intravedono un futuro lì»

«La Terra Santa ha sempre vissuto periodi di tensione fra le popolazioni» ci dice don Lirio Di Marco, vice direttore della Facoltà Teologica di Sicilia che in quei luoghi ha vissuto dal 2003 al 2007, gli anni in cui veniva eretto il muro che divide Gerusalemme tra est e ovest. Due città, totalmente diverse, in una.

«Quello, in particolare, era un periodo in cui si alternavano momenti di tensione a momenti di calma. Il fatto che i popoli di fede ebraica, musulmana e cristiana coesistono ma non convivono – aggiunge don Lirio – è una delle prime cose che ho visto ed imparato stando lì. La zona ovest è quasi totalmente abitata da israeliani ebrei, quella est da palestinesi musulmani (in larga maggioranza) e cristiani. Questi ultimi costituiscono attualmente il 2% della popolazione totale dello Stato di Israele perché – continua – soprattutto i giovani emigrano per studiare all’estero e non far più ritorno, dato che non intravedono nessuna prospettiva di vita e lavoro nei loro luoghi d’origine».

A causa del clima che si respira, dovuto ad attacchi terroristici passati, «Israele ha negli anni incrementato le misure di sicurezza negli aeroporti, con il controllo dei bagagli, e ai check point», spiega don Lirio, che continua: «In quel territorio c’è una sindrome, allargatasi a dismisura negli ultimi anni, dell’attentato e dell’accerchiamento, dovuta al fatto che i territori che confinano con Israele sono prevalentemente di cultura araba. I conflitti con questi Stati vanno avanti ormai da decenni. Anche nei ristoranti e nei bar – continua a raccontare il sacerdote -, per entrare, devi effettuare una sorta di check-in». Questa “sindrome”, a lungo andare, sembra essere stata una delle cause che ha generato l’escalation del conflitto dopo gli attacchi del 7 ottobre. «Alcuni amici che abitano in Galilea mi raccontano che negli ultimi mesi spesso e volentieri sono stati costretti a rifugiarsi nei bunker per ripararsi dagli attacchi missilistici».


«Nelle scuole si impara naturalmente a convivere»

Alla luce di questo, dunque, una convivenza tra musulmani, ebrei e cristiani, è realmente possibile? Don Lirio spiega che «in Galilea (che fa parte dello Stato di Israele) ci sono paesi, come Nazareth e Tiberiade, in cui convivono musulmani e cristiani. Anche se non si tratta di una convivenza pacifica al cento per cento. Nel West Bank è ancora peggio: i coloni ebrei tentano costantemente di occupare nuove zone per costruire case e interi villaggi». C’è, però, un punto da cui si potrebbe partire:

«Lo Stato di Israele è costretto a riconoscere le varie etnie presenti sul proprio territorio. Dunque sovvenziona le scuole private coprendo fino al 60 per cento della retta familiare da pagare: un cittadino è libero di iscrivere suo figlio in una scuola di orientamento musulmano piuttosto che cattolico. C’è anche un’università cattolica a Betlemme. I padri francescani hanno investito molto nell’educazione. La cosa interessante da notare è che, nelle scuole cattoliche, ad esempio, la maggior parte degli studenti è musulmana: si seguono, chiaramente, dei programmi e degli orari che favoriscano il rispetto dei vari culti. Ma – conclude – quando un ragazzo musulmano è stato abituato sin da bambino a condividere il banco con un ragazzo cristiano (e viceversa), è chiaro che impara una capacità di convivenza abbastanza naturale. Non può accadere diversamente. Bisogna continuare ad investire su questo». E magari partire da qui per generare, davvero, la pace.

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