di suor Maria Trigila

Sono due le parole che si incrociano nel Giubileo 2025: pellegrinaggio e speranza. Si tratta del titolo della Bolla d’indizione dell’Anno Santo 2025, “Peregrinantes in spem” tradotta in italiano in “Pellegrini di speranza”. La preposizione “in” del testo latino potrebbe dare una chiave di lettura se invertissimo le parole “In spem peregrinantes” ossia “Nella speranza pellegrini”. Ciò immetterebbe il credente, e non, in uno spazio in continuo movimento considerando la speranza humus e meta del proprio andare, perché la speranza è in primo luogo speranza nel futuro come miglioramento, come cambiamento personale e comunitario, come scrive Papa Francesco nella recente pubblicazione “La speranza illumina la notte”. La speranza accompagna così la persona a scorgere che, nel travaglio di questo mondo complesso e complicato, stiano anche se timidamente fermentando segnali di futuro. Perché la speranza continua sempre a “coltivare” il cuore e la mente, anche quando il terreno è arido. Senza la speranza la persona non è in grado né di pensare né di costruire un mondo migliore. Senza speranza il cuore perde le forze perché l’ottimismo della volontà è la speranza e questa diventa spinta del cuore e motiva all’azione. 

In tal senso questa semplice proposizione in svolge una funzione comunicativa: l’umanità del pellegrino è coinvolta dalla speranza perché il fondamento, il percorso e la meta del suo viaggio è l’incontro con Dio. Muoversi all’interno di questa virtù teologale rende possibile l’esperienza di Dio. Per questo Papa Francesco ci invita ad “allenarci a riconoscere la speranza”.

Se la speranza è una luce e la fede è un viaggio, scrive il Papa nel commentare il tema del Giubileo, potremmo considerare il quotidiano quale paidea della speranza, celebrata in Cristo per attivare un umanesimo della speranza dove la vita è qui ed ora (Hic et Nunc), nella consapevolezza che l’amore vince tutto (Amor Vincit Omnia). La speranza allora esiste da sempre. Da pellegrini, in questa strada che percorriamo, ci raccontiamo, come i discepoli di Emmaus, la bellezza ed il fascino di raggiungere la meta. E già in viaggio,in questo cammino di fede, la speranza scardina e scioglie i nostri nodi mentali, emotivi e spirituali per aprire la porta del nostro cuore a Cristo Principio, Unico ed Universale di Speranza, cioè per liberare il nostro sentimento dell’Infinito e dell’Eternità.

La “Salita di Gerusalemme”, l’Hajj alla Mecca, la Terra Santa, la tomba di Pietro e Paolo, il monte Bodg Gaya, Khisa sono tutti luoghi sacri per il pellegrino ebreo, musulmano, cattolico, buddista, induista. La lista potrebbe continuare. Sono luoghi che orientano il pellegrino a raggiungere sì una meta geografica ma attraverso il raggiungimento di una meta interiore. In cui il pellegrino di speranza rilancia la ricerca del senso della vita, la riscoperta del valore del silenzio, l’adesione all’essenzialità, la convinzione della necessità di guardare il volto dell’altro. Il pellegrino di speranza depone nel luogo sacro la consapevolezza di essere egli stesso, come ricorda San Paolo alla gente di Corinto, il Tempio di Dio (1Cor 6, 19).

Il camminare del pellegrino, in ogni ora del giorno e della notte,si trasforma così in uno stile di vita di speranza in cui si accorge dell’altro che lotta duramente per continuare ad esistere. Stile che diventa segno e lievito di speranza all’interno delle ferite e della frammentarietà del tessuto sociale in cui si allargano a macchia d’olio crisi ecologica, ingiustizie, conflitti. Nel suo andare, il pellegrino credente testimonia che la sua speranza è ancorata in Gesù che non solo ha accartocciato la morte ma l’ha fatta risplendere, dandole significato con la sua risurrezione. Compie così un itinerario della fede integrato da itinerari catechistici ed itinerari spirituali. Cosicché la speranza è un punto di non ritorno. Come lo è stato per il popolo d’Israele che saliva a Gerusalemme, come recita il Salmo 122, perché ritenuta un luogo di pace. La decisione per intraprendere il pellegrinaggio è presa dallo stesso popolo: “Andremo alla casa del Signore”. Poi sostano alle porte della casa del Signore: “E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme”. Il popolo ne ammira la costruzione “salda e compatta”. In questo luogo essi si recano insieme alle altre tribù, perché Gerusalemme è un riferimento per tutti i popoli in quanto fondata sulla “legge del Signore per lodare il nome del Signore”. In controluce, dal testo emerge che la speranza è inscindibile dalla fede cristiana e che i suoi corollari sono coraggio, libertà, responsabilità, consenso, scoperta, promessa, gioia, rinnovamento spirituale. 

Il pellegrino di speranza porta con sé l’essenziale. La Sacra Scrittura indica il bastone e la bisaccia. Il bastone per lasciare la propria “rassicurante staccionata e andare verso gli incroci dove culture e razze si rimescolano ed i popoli ridefiniscono i tratti della loro anagrafe secolare”, come scrive il Vescovo Tonino Bello nel suo libro “La bisaccia del cercatore”. E, allo stesso tempo, il bastone “ci provoca a metterci in viaggio verso la montagna di Dio verso il Sinai, come Mosè, o verso l’Oreb, come Elia, alla ricerca del Suo vero volto”. Si tratta di un cammino che ci porta “a detergere l’immagine di Dio da ogni crosta terrena”. In quest’ottica, continua Tonino Bello, “Guai a fare del nostro frammento la misura del tutto”. Di conseguenza, l’impegno di trascendenza del pellegrino di speranza è quello di “scoprire le potenzialità nascoste nel grembo del futuro”. 

Per il pellegrino di speranza la bisaccia svolge una doppia azione: dare e ricevere, soprattutto sul piano spirituale. Il pellegrino porta con sé l’esperienza della crescita in un tessuto di relazioni anche fragili che, a volte, corrodono la nostra libertà di figli e figlie di Dio, ma nella sua bisaccia la speranza coltiva il forte desiderio di incontrare altre persone per raccontare la propria esperienza di fede e condividere la buona notizia del Vangelo. Perché nella vita del pellegrino la speranza è come una sorta di vela che raccoglie ed è mossa dal vento dello Spirito Santo.  Lo Spirito Santo, infatti, non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza. Per un cristiano, afferma Papa Francesco, “la speranza è Gesù in persona, è la sua forza di liberare e rifare nuova ogni vita”.

Così, quando c’è di mezzo lo Spirito la vita si risveglia, si alza, si muove ed avviene la celebrazione dell’esistenza. Nel cuore del pellegrino di speranza quindi si conferma l’intreccio tra annuncio e la storia di ogni persona risanata da Gesù. Avere con sé un bastone ed una bisaccia potrebbe significare tenere in tasca una penna per discutere la storia, una  pendrive per dare il prompt dei limiti etici allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Raggiunta la meta, per tutti i pellegrini c’è un punto d’incontro. Spesso è la piazza antistante al luogo sacro. Questa si trasforma in spazio di dialogo anche tra culture e religioni diverse, in cui si ascolta,si accoglie, si condividono azioni concrete di speranza mirate al “grido della terra e il grido dei poveri”. Con la presenza dei pellegrini lo spazio assume il carattere dell’espressione di sé, della creatività, della solidarietà, della sinodalità. Raggiunta la meta, il pellegrino di speranza, con il suo andare, si presenta non come un accattone di speranza, ma la gioia di aver incontrato il Signore nel prossimo gli suscita un exploit di speranza. Papa Francesco ricorda: «A Dio non siamo mai arrivati: siamo sempre in cammino, sempre rimaniamo alla sua ricerca. Ma proprio questo camminare verso Dio ci offre l’inebriante certezza che Egli ci aspetta per donarci la sua consolazione e la sua grazia».

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