foto: Nuccio Condorelli

«Per fare missione non serve andare nel terzo mondo, basta svoltare l’angolo»: era il 1970, quando la casa editrice Jaca Book pubblicava un volume intitolato La missione dietro l’angolo. Un gruppo nel quartiere, che si apriva proprio con queste parole.
È raccontata, all’interno del libro, l’esperienza caritativa che in quegli anni un gruppo di studenti delle superiori e universitari di Catania svolgeva nel quartiere di San Cristoforo, firmata da Rosalba Piazza, Maria Grazia Sapienza e Antonio Giacona: quest’ultimo, allora un giovane laureato, qualche anno dopo sarà ordinato sacerdote.
La vita di don Antonio, da quella esperienza di volontariato in uno dei quartieri più popolari del capoluogo etneo – negli anni Sessanta caratterizzato da disagi ben più gravi, rispetto a quelli presenti ancora oggi -, è sempre stata caratterizzata dalla missione. 30 anni vissuti in Cile e poi il ritorno a Catania, dove ricopre oggi il ruolo di cappellano del carcere di Piazza Lanza.
Proprio in occasione della 98ª Giornata Missionaria Mondiale abbiamo voluto incontrare don Giacona per farci raccontare la sua esperienza, da quei giorni vissuti “svoltando l’angolo” a quelli odierni in mezzo ai detenuti.

Don Antonio, da cosa nasceva l’esperienza missionaria a San Cristoforo?

«Da un’amicizia, una storia, un metodo. L’amicizia tra alcune persone che, nell’età decisiva della loro adolescenza, nell’incontro con la realtà di Gioventù studentesca e la persona di don Francesco Ventorino, avevano riscoperto la fede come capace di dare alla vita “un nuovo orizzonte” e “la direzione decisiva”. La partecipazione alla vita della Chiesa si configurava come una storia vissuta insieme, e non appena la presenza ad alcuni gesti isolati o alcuni riti: era un cammino nel tempo.
E la scoperta che questo desse alla vita una pienezza di significato e di soddisfazione si verificava continuamente nell’esperienza, laddove tutte le dimensioni dell’umano e gli aspetti della realtà, vissuti nella comunione cristiana acquistavano una bellezza, una verità e una bontà altrimenti sconosciute. Un fattore fondamentale della nostra educazione cristiana e della verifica della fede è stato sempre costituito dalla caritativa: un gesto di condivisione di una parte del proprio tempo con chi è più bisognoso, per imparare la gratuità, cioè la natura stessa del mistero di Dio. Facendo insieme questo gesto, rilevando i bisogni delle persone incontrate, soprattutto il bisogno di quella nuova possibilità di vita che ci animava, si è sviluppata la “missione dietro l’angolo” nel quartiere di San Cristoforo. Così abbiamo tentato di condividere il senso della vita: condividendo alcuni bisogni».

Come mai, dunque, sei andato in Cile dove hai vissuto la tua missione per trent’anni?

«La missione in Cile è nata dalla maturazione del senso di appartenenza alla Chiesa e al movimento di Comunione e Liberazione, attraverso cui si possono cogliere i segni che il Signore dà per svolgere la propria vocazione, il proprio compito nella Storia. Nel 1984, per i trent’anni del Movimento, nell’udienza concessaci, San Giovanni Paolo II ci invitò ad andare in tutto il mondo. Accadde che si moltiplicassero tra di noi gli avvisi riguardanti le richieste di presenze missionarie in tutto il mondo. Ogni volta che ne sentivo uno, mi sentivo personalmente interpellato. Consegnai questa mia reazione a don Ciccio (Ventorino N.d.A.) e don Giussani: secondo il loro giudizio era un segno da assecondare. Il luogo fu indicato dalla contingenza del momento: c’era bisogno di un sacerdote in Cile. E allora sono partito.

Ripensando all’esperienza di trent’anni – sono rientrato a Catania nel 2017 – e alla luce di un recente viaggio per visitare gli amici dopo diversi anni di assenza, posso dire sinteticamente questo: l’autore della missione è il Signore Gesù! Il frutto di bene che è accaduto e che permane a beneficio delle persone e delle comunità è con una solare evidenza sproporzionato rispetto alla mia persona, quindi opera della Sua grazia. Tuttavia, è ugualmente evidente che il Signore per la sua opera ha voluto mendicare l’obbedienza della mia libertà, della mia umanità con le sue caratteristiche e limitazioni, e attraverso i miei “sì” ha realizzato il suo disegno. Negli ultimi anni di insegnamento all’Università Cattolica lo dicevo spesso ai miei alunni: “Quando accade che ci capiamo veramente in profondità, è un miracolo: certamente ciascuno deve metterci del suo, ma il frutto è sproporzionatamente più grande, più bello, più buono, rispetto alla somma dei fattori messi in campo da noi”. Qualcosa di un altro ordine, di divino».

Rientrato a Catania, cosa significa vivere la missione all’interno del carcere di Piazza Lanza?

«Anche qui, volendo essere sintetico: la mia missione in carcere è il frutto di una nuova, ulteriore maturazione. Certamente è maturato il mio senso di appartenenza alla Chiesa e al Movimento: mi trovo a svolgere il mio ministero in carcere perché inviato dal mio Vescovo; allo stesso tempo mi trovo a operare in compagnia di tanti amici del Movimento volontari, per cui la mia stessa obbedienza al Vescovo è sostenuta dalla loro presenza, dal loro giudizio, dalla testimonianza della loro carità e della loro passione di comunicazione della fede. Altro segno di appartenenza ecclesiale è certamente la collaborazione con volontari appartenenti ad altre realtà di Chiesa, dal Centro Astalli alle Suore Francescane del Vangelo. Per cui la Missione a Piazza Lanza è realmente una bella sinfonia!
Ma quello che è maturato in me esercitando questo ministero in Piazza Lanza è che veramente ogni uomo e ogni donna, come me, hanno bisogno di incontrare il Signore Gesù: solo Lui può dare senso, gioia e speranza alla vita, anche nelle circostanze più faticose e dolorose. Papa Benedetto XVI dice: “Chi non dà Cristo, dà ancora troppo poco”. Quando nella storia di una persona si verifica un momento vero di incontro con il Signore – per esempio attraverso alcuni grandi parroci della nostra storia diocesana – esso lascia un segno indelebile, da cui si può sempre ripartire. Inoltre, sta maturando anche la certezza che la carità, cioè il dono commosso di sé piegandosi sulle persone, sui loro bisogni, dai più banali ai più profondi, drammatici e urgenti, è il volto attraverso cui Gesù stesso si fa presente, si fa riconoscere, ed entra in rapporto. È importante un’unione vissuta di tutta la comunità diocesana, e per questo spesso condivido l’attenzione alle persone con tanti confratelli».

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