Non potevamo tralasciare di condividere, nella propizia occasione della solennità del Corpus Domini, l’affinità “eucaristica” che ci lega a Giuseppina Faro che si è distinta come testimone dell’amore fedele del Dio amorevolmente vicino ad ogni necessità. La «beata Peppina» ha infatti vissuto l’esperienza della fede in modo concreto, incarnato nel sociale, capace di rivelare il volto di una Chiesa che dal centro, l’Eucaristia, raggiunge quelle periferie esistenziali di cui tanto parla papa Francesco, ossia i poveri, gli ultimi, gli ammalati, quel popolo che, per dirla con il beato Giuseppe Benedetto Dusmet, «domanda pane e fede».
Dusmet: “Il popolo domanda pane e fede”
Non per nulla il biografo padre Felice Maria Caruso proponeva Giuseppina Faro come modello alle donne impegnate nell’«opera di soccorso agli infermi poveri a domicilio e alle Pie Sacramentine».
Il pane, con forte richiamo all’Ostia, è l’alimento quotidiano, il segno del raccogliersi attorno ad una mensa, è il cibo di cui non si può fare a meno. E Giuseppina Faro, che ha operato al tempo del beato Cardinale e sicuramente stimolata anche dal suo esempio e dalle sue esortazioni pastorali, davvero ha testimoniato il primato della comunione e della carità abbracciando nel bisognoso, sacrario della Trinità, il Signore sofferente e affamato prima di tutto di amore e di accoglienza. A Pedara, suo paese natale, ella ha profuso il suo apostolato distinguendosi per la semplicità della vita e la profonda spiritualità. Pure nel monastero benedettino di San Giuliano a Catania, dove visse come educanda per 18 mesi, non mancava, con il permesso della Madre Abbadessa, di elargire elemosine rinunciando a quei sussidi che i genitori le davano per i bisogni personali. Secondo il biografo padre Salvatore Gaeta uno dei motivi principali che spinsero la giovane ad entrare in monastero fu quello di poter stare più vicina al SS. Sacramento. Nell’elogio funebre tenuto ad un anno dalla morte, mons. Giuseppe Coco Zanghì, tra i tratti salienti della vergine pedarese, mise in risalto «la sua abitudine costante alla preghiera, la sua ubbidienza, il suo amore a Gesù nell’Eucaristia, le sue meditazioni sulla persona di Cristo».
Giuseppina Faro, preghiera eucaristica e carità
Dunque è dalla celebrazione eucaristica e dall’adorazione che matura la ragione dell’agire di Giuseppina Faro, quasi un movimento simile a quello del respiro fatto di inspirazione, la preghiera appunto, e di espirazione, l’espandere all’esterno la forza vitale alimentata dentro. Ne scaturisce di conseguenza l’imitazione di Cristo e, dunque, il far proprio il comandamento nuovo che invita ad amare come Lui ha amato. Giuseppina Faro viveva la sua vocazione caritatevole e assistenziale come riconoscimento del volto di Dio nei fratelli; era prima di tutto una giovane donna, una cristiana che ha saputo fare della carità il suo modo precipuo di vivere il Vangelo ponendosi alla scuola del Salvatore che ha detto: “Ero povero, infermo, nudo e mi avete soccorso perché ogni volta che avete fatto qualcosa ai miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me” (cfr Mt 25,35-44).
Una imitazione di Cristo che, a sua volta, diventava entusiasmo coraggioso; infatti l’esempio luminoso di Giuseppina suscitò in molte sue amiche e altre ragazze il desiderio di consacrarsi al Signore nella verginità e nella carità. Dal Sacramento dell’altare, il fuoco della carità si espandeva e si accresceva nella testimonianza mirabile di amore a Dio e ai fratelli. Come sottolineato da mons. Coco Zanghì, Peppina «ama Lui e con Lui e per Lui tutto ciò che egli ama». Ella ebbe in Dio il punto di convergenza e, quindi, unificatore; il polo di attrazione per tutta la sua tensione morale e la sorgente della sua attenzione al prossimo (mons. Salvatore Consoli).
Un sacerdote della nostra diocesi era solito dire che “noi siamo ciò che contempliamo”; quindi se adoriamo il Sacramento dell’amore non possiamo non diventare amore e, siccome l’Eucaristia non soltanto la si adora ma soprattutto la si celebra e di essa ci si nutre, è pure vero che noi siamo ciò che mangiamo. Così ancora la ritrae mons. Coco Zanghì con fare retorico eppure incisivo: «Uditori, fu serafina di amore verso Dio la nostra donzella; ma ditemi, non fu insieme l’apostolo della carità in mezzo a voi, l’angelo di conforto pe’ poveri, per gli infermi, per le anime afflitte, per le desolate famiglie? […] Oh! si faccia innanzi ancora e parli chi ne ricevè istruzione nell’ignoranza, consiglio nella dubbiezza, conforto in ogni sorta di disavventura?». Peppina non soltanto portava elemosine nelle povere case, ma ci metteva del suo prodigandosi per pulire gli ambienti, per cucinare, per medicare ferite e lavare anche sudice bende. Dall’Eucaristia aveva imparato questo, ossia il dono totale di sé. Ecco perché le sue visite, fatte con spirito eucaristico, assumevano anche una valenza “salvifica”.
Dal Cielo la nostra Peppina, “donna eucaristica” ad imitazione di Maria, invita tutti noi, fedeli della Chiesa di Catania, a mettere ancor più Gesù Eucaristia al centro della nostra vita «per sentire sempre in noi i benefici della redenzione» e aprirci concretamente ai bisogni di tutti i fratelli.