In queste settimane l’opinione pubblica è divisa in due fazioni: chi ritiene tutti gli israeliani guerrafondai senza scrupoli, mietitori di decine di migliaia di innocenti vittime (molti bambini), insaziabili occupatori dei territori altrui, e per questo illegittimi; chi, dall’altro lato, pensa le stesse cose dei palestinesi, attribuendo il desiderio di libertà di ciascuno di loro a quello di un’organizzazione terroristica come Hamas.
Sembra si stiano giocando delle partite di calcio dove ciascuno di noi, pur da spettatore più o meno “neutrale”, è portato a formulare un giudizio e prendere una posizione. Perché in qualche modo, ciò che sta succedendo in quei posti, deve interessarci.
Nell’ambiente che è a me più vicino, quello universitario, il tema è accesissimo: da qualche settimana sono vertiginosamente aumentate le manifestazioni studentesche in giro per il mondo. C’è un filo rosso che lega questa mobilitazione di milioni studenti: la forte richiesta agli atenei di tagliare qualsiasi rapporto di ricerca con Israele, e non sottoscriverne di nuovi in futuro. «Fino a quando questo non sarà garantito – spiegano gli esponenti della protesta soprattutto negli USA – non ce ne andremo, non entreremo in aula a fare lezione e continueremo ad alzare la nostra voce». Una forte presa di posizione a favore della causa palestinese e contro il genocidio operato da Netanyahu e soci.
E in tutto questo, a Catania cosa succede?
Le proteste negli Stati Uniti hanno fatto molto più scalpore di altre per due motivi su tutti: gli USA sono un paese notoriamente legato ad Israele, specialmente dal punto di vista militare. Harvard e Columbia sono università prettamente “bianche”. Francesca Maria Lorenzini, italiana che alla Columbia studia Giornalismo ed è in procinto di laurearsi (polizia permettendo), ha raccontato a me e ai miei colleghi di Catania questa situazione: «C’è una nuova America, under 35, che stravolge i propri ideali e lotta per la Palestina».
Anche qui alcuni collettivi studenteschi hanno comunicato via social di voler scioperare dalle lezioni il 15 maggio: una data simbolica, la Nakba, in ricordo della prima occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele, nel 1948.
Anche qui il desiderio è quello di fare rumore, di far sentire la propria voce e di manifestare la netta posizione a favore della Palestina.
Mi sono dunque chiesto se è facendo rumore, urlando, che si risponde alla guerra. Se è con la violenza che si risponde alla violenza.
Qualcuno potrebbe obiettare che le proteste studentesche sono “pacifiche”. Ma ho sentito amici di Bologna, in questi giorni, trovarsi in difficoltà con l’organizzazione di una manifestazione sulla scia del Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini, da sempre luogo di incontro e di dialogo: proprio gli spazi destinati al Campus by Night (il nome dell’evento) sono stati occupati dalle tende di chi ha detto loro: «Siete cattolici, non ce ne frega niente». Loro non si sono arresi, hanno trovato un’altra location e il Campus si è svolto ugualmente.
Ma qualcuno ha domandato agli studenti cattolici, veramente, cosa importa a loro? Qualcuno li ha mai ascoltati?
Solo pochi capi di Stato, come il presidente Mattarella, si sono accodati all’appello di dialogo e di pace reiterato in ogni occasione da papa Francesco. La pace è la terza fazione, quella più complicata con cui schierarsi perché richiede davvero un impegno personale per essere generata, anche attraverso piccoli gesti.
Dialogo, pace e speranza: sono le tre parole spesso ripetute anche dal cardinale Pizzaballa, il patriarca dei latini di Gerusalemme che in una recente intervista ad Avvenire ha dichiarato come «questa guerra ci cambierà tutti».
Dialogo, non rumore: vorrei ci fosse questo in università, che non ci sia un solo grido e un solo allarme, che ci siano più voci a confrontarsi. Che dall’ascolto reciproco nascano giudizi diversi e che da questi si generi pace e speranza.