I filosofi medioevali insegnavano che prima di aprire una discussione su un argomento, occorreva chiarire il significato dei termini della questione (ovvero explicatio terminorum), diversamente ci sarebbe stato il pericolo di incorrere in molteplici equivoci che avrebbero reso vano il confronto. Così, mi sembra, che stia accadendo in questi mesi allorché i partiti della maggioranza hanno cominciato a parlare di “autonomia differenziata”, fino ad arrivare al Ddl del 23 gennaio 2024 per l’attuazione dell’autonomia differenziata per le Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
Tutti stiamo assistendo alla polemica che è divampata con le opposizioni. Infatti, tanti temono che si tratti di un’astuta mossa per rilanciare un federalismo, marca Lega, camuffato di autonomia delle regioni, che finirebbe per accentuare il divario Nord-Sud, favorendo le regioni più ricche e lasciando indietro quelle più povere del Mezzogiorno, perpetuando antiche ingiustizie.Si pensi alle 23 materie demandate alle singole Regioni, tra cui l’istruzione e la sanità. E ancora, molti si chiedono: cosa si intende con le due espressioni: “federalismo simmetrico” e “federalismo asimettrico”?
I rischi di una malintesa autonomia, recentemente, sono stati al centro di un focus delle ACLI nazionali, in cui, coordinati da Paola Vacchina, si sono confrontati diversi docenti di varie università italiane dal Nord e al Sud. Tra i diversi rischi elencati: un regionalismo pericoloso, la cui autonomia differenziata sembra più che altro una sorta di devolution. Anche a Catania, nei giorni scorsi, la CGIL e la “Rete del No” hanno organizzato un incontro su questa tematica, che ha visto la partecipazione di esponenti di diversi partiti dell’opposizione. Dal dibattito sono emerse le molteplici criticità implicite nel disegno sull’autonomia differenziata. E anche la diocesi di Catania si è mossa, attraverso l’Ufficio della pastorale sociale e il lavoro e attraverso il Cantiere per Catania coordinando iniziative sul tema in collaborazione coi vari uffici diocesani della Regione.
I vertici della CEI, con il Presidente Card. Zuppi e il Segretario generale Monsignor Baturi, hanno espresso delle perplessità sul Ddl suddetto. Preoccupazioni, a tal proposito, hanno manifestato anche alcuni vescovi del Meridione, come ad esempio, fra gli altri, Mons. Battaglia, arcivescovo di Napoli, oppure Mons. Savino, vescovo di Cassano. Mentre la Conferenza Episcopale Siciliana ha redatto una nota critica.
A questo punto, ritengo che sia opportuno proporre qualche riflessione in vista di un saggio discernimento su una tematica così importante per la vita del nostro Paese. A mio avviso, bisogna individuare quali sono i valori di “un sano e vero regionalismo” (per usare le parole di don Sturzo), ovvero di una genuina autonomia, fondata sul principio di sussidiarietà, presente nella nostra Costituzione, ma tanto caro alla Dottrina sociale della Chiesa, che lo formulò chiaramente nel 1931, con la “Quadragesimo anno” di Pio XI: “(…) è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare” (n.23). In tal modo, si possono contrastare le svariate “forme di accentramento, di burocratizzazione, di assistenzialismo, di presenza ingiustificata ed eccessiva dello Stato (….)”(Comp. Dottrina sociale della Chiesa, n.187).
Nella tradizione del pensiero cattolico sociale, si possono trovare le antiche radici dell’autonomia degli enti locali, all’interno di un’articolazione organica dello Stato. Basti pensare a Gioacchino Ventura che metteva in guardia dai gravi rischi del centralismo statale ed evidenziava i vantaggi del decentramento, sia amministrativo che politico (e ciò avveniva nel 1848!). Sulla stessa lunghezza d’onda di pensiero troviamo, ad esempio, anche Antonio Rosmini (si pensi alla sua idea di federalismo), oppure Vito d’Ondes Reggio, come pure Giuseppe Toniolo.
Erede originale di questa visione, è stato il nostro conterraneo don Luigi Sturzo, il quale fin dal 1901 (a 29 anni) su “Il Sole del Mezzogiorno” pubblicava un lucido articolo: “Nord e Sud. Decentramento e Federalismo”. Secondo Sturzo, il forte squilibrio economico tra un Nord ricco e un Sud povero si sarebbe potuto superare proprio grazie al decentramento, richiesto dalla peculiare situazione economica, storica e geografica, culturale di ogni Regione. In tal modo, si sarebbero potute potenziare le energie specifiche di ogni territorio, aprendo la via ad un autentico sviluppo ditutto il Paese, senza lasciare nessuno indietro. Sosteneva il nostro: “è tempo ormai di comprendere come gli organismi inferiori dello Stato, regione, provincia, comune, non sono semplici uffici burocratici o enti delegati, ma hanno e devono avere vita propria, che corrisponda ai bisogni dell’ambiente, che sviluppi le iniziative popolari, dia impulso alla produzione ed al commercio locale. […] E così solamente la questione del nord e del sud piglierà la via pratica di soluzione, senza ingiustizie e senza odi e rancori”. Era chiaro che si trattava di un’audace sfida lanciata nei confronti dello “Stato accentratore e livellatore”.
E ancora, nello storico “Appello a tutti gli uomini liberi e forti” (18 gennaio 1919), Sturzo scriveva: “Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”. Dopo molti anni, Sturzo riconoscerà di essere stato preso “dall’ondata del decentramento” e di essere rimasto, per tutta la vita, “unitario, ma federalista impenitente”. Tanto è vero che non appoggiò mai il separatismo che si stava diffondendo in Sicilia alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel trentennale dell’autonomia della Regione Siciliana e del suo Statuto (1946-1977), autorevoli esponenti politici riconoscevano la forte valenza culturale-politica dell’apporto dato da Sturzo all’impianto autonomista. C’è stato anche chi ha definito tutto ciò il suo capolavoro istituzionale.
A cinquant’anni esatti (15 maggio 1946 – 15 maggio 1996) da quando era stato approvato lo Statuto speciale per cui la Sicilia veniva costituita Regione con condizioni particolari di autonomia, e da notare che ciò avveniva ancor prima dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, la Conferenza Episcopale Siciliana pubblicava un coraggioso documento “Finché non sorga come stella la sua giustizia”. I vescovi siciliani entravano a gamba tesa sui “gravissimi mali, antichi e nuovi, che umiliano la Sicilia” e sulle “ingiustizie che l’hanno costretta in una condizione di sottosviluppo”(p.8), mettendo a nudo le gravi responsabilità della classe politica regionale che, coni suoi vari dirigentiche si erano avvicendati in cinquant’anni di autonomia, non era riuscita (per incompetenza, indolenza, interessi particolari e quant’altro) a sfruttare tutte le opportunità insite nel suo Statuto speciale. Una condizione tale di inefficienza aveva fatto sì che, il 23 ottobre 1991, al Senato venisse proposto un disegno di legge costituzionale per l’abrogazione dello Statuto siciliano! E infatti, il documento, a tal proposito, sottolinea che la Sicilia ha sperimentato, purtroppo, “un’autonomia presunta, dato che le decisioni e le scelte di sviluppo più importanti sono state sempre gestite da uno Stato centralistico e persino dai centri decisionali dei partiti” (n. 2). I vescovi nel denunciare il tradimento dell’autonomia hanno come orizzonte di riferimento il pensiero autonomistico di don Sturzo, che emerge come in filigrana dalle pagine del documento. Nell’enumerare le molteplici cause del fallimento di questa esperienza cinquantennale, evidenziano innanzitutto l’inefficienza della “classe politica sempre più avvitata su se stessa, incapace di progettualità, attenta soltanto ad assicurare a sé e al proprio entourage la sopravvivenza […], a gratificare i propri clienti senza curarsi del bene comune” (n 3). In tal modo, la politica ha legato al palo lo sviluppo della nostra Isola. I gravissimi mali sociali, elencati dai vescovi, spaziano dalla crisi di governabilità alla mafia, dall’illegalità diffusa al clientelismo, dal burocraticismo ai ricatti, dall’assistenzialismo alla disoccupazione, dai lavori non cantierati e dalle gravi carenze infrastrutturali alla perdita dei fondi europei. Tutto ciò e altro ancora viene analizzato insieme alle pesanti ricadute sull’intero tessuto sociale della Sicilia, sulle famiglie e sulla qualità della vita delle persone. I vescovi, però, fanno anche un “mea culpa” e non tralasciano di denunciare i silenzi della Chiesa, che avrebbe dovuto gridare di fronte a queste ingiustizie (cf Isaia 62,1). Il documento apre alla speranza auspicando un profondo rinnovamento a tutto campo, in cui ognuno è chiamato a fare la sua parte per il bene comune, che è bene di tutti e di ognuno.
Davanti a un quadro così desolante, vengono in mente le sagge parole di Sturzo: “I fieri siciliani di un tempo si ricordino che questa terra non è nata per servire, ma ha servito quasi sempre, per la vigliaccheria dei suoi figli”.
Da quanto abbiamo detto sopra, una sana autonomia regionale, fondata sui principi di sussidiarietà e solidarietà, e attuata efficacemente, potrebbe essere un volano per un genuino sviluppo dell’intero Paese. A tal proposito, mi sembra opportuno suggerire che organizzazioni ecclesiali e laiche, movimenti, associazioni, uffici pastorali specifici, aprano (come stanno già facendo il Cantiere per Catania e l’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro della diocesi che hanno coinvolto l’ufficio regionale per la pastorale sociale e altre realtà di diverse diocesi siciliane) tavoli di confronto pubblico. Anche, per esempio, con dei focus con quei politici che ispirano la loro attività ai criteri della Dottrina sociale della Chiesa, in un autentico esercizio di democrazia partecipativa, per offrire i propri contributi affinché la proposta di autonomia differenziata corrisponda ai valori di una genuina autonomia e non provochi invece una spaccatura ulteriore del Paese.
Auspichiamo che nessuno dei politici ritenga che la proposta di legge suddetta finalmente libererà il Nord da quella “palla al piede” che è il Sud (come diceva il Bossi di molti anni fa). Bisogna, invece, avere presenti le parole dei vescovi italiani, i quali, già sin dal 1981 nel documento “La Chiesa italiana e le Prospettive del Paese” e poi ancora in altri due documenti su la Chiesa e il Mezzogiorno [1989 e 2010] affermavano: “Il Paese non crescerà se non insieme”.