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La Chiesa e la mafia, don Abbondio e padre Cristoforo

“Le Chiese di fronte alla mafia” è il titolo del primo dei sei seminari organizzati dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università, ciclo iniziato il 18 scorso e che si concluderà il 26 febbraio.

I seminari, dal titolo “Territorio, ambiente e mafie”, sono dedicati alla memoria di Giambattista Scidà, il magistrato che non si stancò mai di denunciare i mali della nostra città, troppo spesso aggravati dalla collusione con la criminalità mafiosa.

Gli oltre 400 iscritti (studenti, docenti, e comuni cittadini) possono seguire i seminari sia nell’auditorium Giancarlo De Carlo dell’ex monastero dei Benedettini di Catania, sia online.

Il primo seminario, coordinato da Roberto Cellini, direttore del Dipartimento di Economia della nostra Università, ha avuto come relatori l’Arcivescovo Mons. Luigi Renna, Augusto Cavadi, docente di storia della filosofia all’Università di Palermo, il Pastore della Chiesa Valdese di Messina Francesco Sciotto e Antonio Fisichella del Comitato contro la dispersione scolastica.

Perché parlare delle “Chiese”? Perché per secoli sono state un’istituzione, forse l’unica riconosciuta dalla quasi totalità della popolazione e i religiosi, volenti o nolenti, sono entrati in contatto con i mafiosi.

La Chiesa non delegava potere, non chiedeva controllo del territorio né elargiva favori per ottenere i quali poteva essere utile chiedere l’intermediazione dei mafiosi. Ma a costoro non sfuggiva il valore aggiunto che derivava loro dal mostrarsi devoti, dall’ostentare la loro ipocrita religiosità, perché in tal modo influenzavano il giudizio del resto della collettività, che finiva per accettarli come depositari di valori condivisi.

Proprio sui valori il prof. Cellini si è interrogato, ricordando come anche valori importanti, ad esempio la solidarietà, in certi contesti si trasformino in disvalori. Indubbiamente fra mafiosi c’è una forma di solidarietà, ma è una solidarietà distorta, che spesso è solo complicità.

Allora, ha chiesto Cellini, come possono le chiese far capire che certi comportamenti non sono aderenti allo Spirito religioso?

La risposta ha provato a darla mons. Renna, denunciando la solidarietà vista come assistenzialismo e citando Sciascia e il dialogo del Giorno della Civetta, nel quale il brigadiere chiede al mafioso “Crede che basti mostrarsi devoti, andare a messa”?Credo che basti” risponde il mafioso. “La chiesa è grande, perché ognuno ci sta dentro a modo proprio.” Dunque una religiosità falsa e strumentale, che non è fede ma solo un modo di vivere, nella quale la solidarietà è solo assistenzialismo e il Vangelo non è altro che belle parole e nulla più.

Il vero “dio” dei mafiosi sono il potere e il denaro, ha ricordato l’Arcivescovo, ma per decenni la chiesa siciliana non lo ha capito e non sono bastate le denunce di Don Luigi Sturzo, che agli inizi del Novecento aveva descritto il clero meridionale come succube delle grandi famiglie nobili, degli organizzatori delle feste religiose, nelle quali la mafia entra molto velocemente. Come ben sappiamo anche oggi.

Allora sul ruolo della Chiesa chi ha ragione? ha chiesto il prof. Cavadi. Quei cattolici che ricordando il martirio di don Pino Puglisi e don Peppe Diana sostengono che la Chiesa è un baluardo contro la mafia? Oppure quei laici che sostengono la tesi opposta, cioè che la chiesa è tutta mafiosa, è amica e protettrice dei mafiosi?

Né gli uni né gli altri, risponde il docente palermitano, il quale cita Giovanni Falcone, per il quale a decidere il futuro della Sicilia non sarà la lotta tra i pochi mafiosi e i pochi antimafiosi di professione, ma l’atteggiamento passivo di quella stragrande maggioranza di siciliani che credono che la cosa non li riguardi.

Come uscirne? La risposta unanime dei relatori è che solo con la formazione scolastica si possano formare le persone, si possano recuperare quei ragazzi che non hanno altri modelli che i loro genitori.  Non bisogna dimenticare, ha ricordato Cavadi, “che i mafiosi sono esperti pedagoghi e trasmettono di generazione in generazione i loro valori perversi. Dobbiamo strappare ai mafiosi almeno una generazione. Non possiamo permettere che continuino a trasmettere di padre in figlio e soprattutto di madre in figlio la loro cultura di violenza, prevaricazione e morte”.

* l’autore è membro di un gruppo di lavoro congiunto Federmanager-Pontificia Accademia Mariana Internationalis, per ottimizzare la gestione dei beni confiscati alla criminalità.

la registrazione integrale dell’evento del 18 gennaio può essere vista su: https://www.youtube.com/watch?v=UlDBQA3b9mk

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