Con l’inizio del tempo di Quaresima l’Arcivescovo Mons. Luigi Renna, per quattro mercoledì consecutivi, 1-8-15-22 marzo 2023, offre alla comunità diocesana spunti di riflessione attraverso la Catechesi dal titolo: Da Babele a Gerusalemme: costruire la città dell’uomo a misura d’uomo.
Lo scorso mercoledì la prima riflessione quaresimale è stata “La Città: luoghi in cui si manifesta l’umanità”. Di seguito il testo integrale:
Carissimi fratelli e sorelle,
potrà sembrare poco opportuno dedicare le catechesi quaresimali al tema della città, perché qualcuno ci si potrebbe chiedere: “Ma non è un tema troppo politico? Non si rischia di dimenticare che questo è il tempo che la Chiesa dedica alla conversione? Non è più coerente parlare di preghiera, digiuno e carità?” Poiché non voglio venir meno al mio ministero, che è quello di annunciare il Vangelo, vi ricordo che il tema della città, o meglio del “costruire la città dell’uomo”, attraversa tutta la Scrittura, che parla di essa come del luogo dove l’umanità vive la sua relazione con Dio e con gli altri, segnata sì dal peccato, ma anche orientata alla salvezza. Un modo molto privatistico ed intimistico di vivere la fede dimentica che l’amore per Dio e per il prossimo passano attraverso relazioni che sono quelle familiari, ecclesiali, sociali, globali; che temi come la responsabilità, la cittadinanza, la giustizia, l’operosità per la pace, non possono essere lontane dal cammino di fede di ciascuno di noi e dalla vocazione a cui ognuno in modo proprio e complementare è chiamato. Nell’ascolto della Parola noi apriremo il nostro cuore al progetto di Dio sull’umanità e sul bene comune, e pregheremo per esso. Saremo invitati a digiunare da quegli atteggiamenti che “ingrassano” tutto ciò che mina la responsabilità: la cupidigia, l’odio, l’indifferenza, la superbia. E la nostra carità guarderà al povero non come ad una persona a cui dare un’elemosina “una tantum”, ma come ad un fratello da includere nella città. Carità politica allora significherà ridonargli diritti e un posto che ha già nel piano di Dio e nelle costituzioni democratiche, ma non nella visione di chi disdegna la fraternità, fonte di uguaglianza e di libertà.
Per questo inizieremo la nostra catechesi quaresimale dal primo libro della Bibbia, che ci parla di “città” subito dopo averci parlato del primo peccato, quello di Adamo ed Eva, che hanno mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, e a cui è seguito il fratricidio di Caino nei confronti di Abele (Gen 4,17-24). Dio condanna Caino ma, allo stesso tempo, si fa garante della sua vita: “Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte. (…) Il Signore impose a Caino un segno perché nessuno, incontrandolo lo colpisse.” (Gen 4,15).
Dal libro della Genesi, cap. 4, 17-24
Ora Caino conobbe sua moglie, che concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoc, dal nome del figlio. A Enoc nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò Metusaèl e Metusaèl generò Lamec. Lamec si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Silla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Silla a sua volta partorì Tubal-Kain, il fabbro, padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro. La sorella di Tubal-Kain fu Naamà. Lamec disse alle mogli: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamec, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido.Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette».
La discendenza di Caino continua nel tempo e il testo non ci invita a considerarla una “stirpe maledetta”, perché il Signore stesso non vuole la sua morte, anzi la benedizione della fecondità continua in lui, che da sua moglie ha un figlio, Enoc. Al costituirsi di questo nucleo familiare segue la costruzione della città, il passaggio da una vita nomade ad una sedentaria. Caino chiama la città con il nome del figlio, quasi a dirci che una comunità nasce per custodire la vita e la famiglia. Dobbiamo leggere questo testo nel suo piano simbolico e ricordarci che nella città nasce per il conseguimento di beni e felicità come anche aveva affermato Aristotele:
«La comunità che risulta di più villaggi è la polis, perfetta, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formata per rendere possibile la vita, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice» (Politica, 1252, b 28ss).
In definitiva, la nascita della città è un bene: in essa si sviluppa la civiltà, ma in essa non mancano le contraddizioni proprie dell’umanità, simboleggiate da alcuni nomi che indicano però anche ambiguità. A Enoc nacque Irad, e il figlio di costui si chiama Mecuriael (=Dio è distrutto), e il figlio di Mecuriael è Metusael (=uomo arido di potere). Lamec è figlio di Metusael ed è bigamo; dall’unione con Ada partorisce Iabal, il padre di quelli che abitano sotto le tende presso il bestiame, coloro che possiedono la più grande ricchezza, il “pecus” direbbero i latini, da cui la “pecunia”. Iubal è suo fratello, iniziatore della musica, che nei profeti manifesta la sua ambiguità perché è privilegio di pochi: “Ci sono cetre e arpe, tamburelli e flauti e vino per i loro banchetti; ma badano all’azione del Signore, non vedono l’opera delle sue mani”, dice Isaia (5,12). Lamec si unisce a Silla sua moglie e questa partorisce Tubal-Kain, il padre di quelli che lavorano il ferro e il bronzo, un popolo che Israele guarderà con sospetto quando attribuirà l’uso di tale arte ai Filistei, che ne avevano precluso l’uso ad altri popoli, tanto che solo il re Saul e Gionata avevano una spada e una lancia (cfr. 1Sam 14,22). I nomi delle donne Ada, Silla e Naamà, significano rispettivamente “ornamento”, “abbigliamento”, “affascinante”, e sono tutti espressione di esteriorità e dissoluzione, anzi l’ultima richiama secondo alcuni autori l’inizio della prostituzione. Lamec è il vertice di una genealogia che sembra regredire alla violenza di Caino, perché è l’uomo che si fa giustizia da solo. Egli agisce unicamente a proprio vantaggio, contrapponendosi anche a chi è debole come un ragazzo, e non ha alcuna misura, perché si vendica persino per una “scalfittura” con una smisurata azione omicida. Con tutte queste espressioni non si vuole affermare che la città è una realtà negativa perché è stata edificata da Caino, ma che è ambigua, perché vi convivono il bene e il male, e risente di tutte le contraddizioni della convivenza umana, nella quale il potere, la violenza, il disordine morale, possono avere la meglio. La città è il luogo nel quale l’umanità è chiamata ad essere responsabile del prossimo e a scegliere secondo quale logica vivere. Questo brano fa comprendere anche a noi che ogni città, è il luogo dove si manifesta la nostra umanità con i suoi vizi e le sue virtù. Può essere la città di Caino, di Lamec, come anche di chi vive nella fraternità. Tutto questo nel capitolo 4 della Genesi. L’esito di questa storia lo abbiamo nel capitolo 11 nel quale viene narrato l’episodio della città-torre di Babele.
Dal libro della Genesi, cap. 11
Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
Il testo inizia dicendo che “Tutta la terra aveva un’unica lingua e le stesse parole” (Gen 11,1).
Ci sono due interpretazioni di questa unitarietà di linguaggio: una è positiva, perché ritiene che ci troviamo davanti ad una situazione ideale; un’altra interpretazione, presente già presso gli ebrei, nel Targum, vede nell’unica lingua una caratteristica negativa, ovvero l’imposizione da parte di qualcuno che ha voluto “soffocare” l’originalità dei popoli. Il Targum Neofiti afferma: “Gli uomini erano animati da uno stesso disegno. Dicevano: “Dio non ha alcun diritto di riservare per sé le regioni celesti. Saliamo dunque al cielo e facciamogli guerra.” Altra interpretazione di “le stesse parole”: le parole contrarie a colui che è l’unico del mondo” (Targum Neofiti a Genesi 2,19). Per comprendere questa situazione bisogna leggere qualche versetto precedente: al capitolo 10, 8-10, si parla di un re di nome Nimrod, di cui si dice che “Fu il primo ad essere potente nella terra, e il principio del suo regno fu Babele, nella terra di Sinhar, cioè nella Mesopotamia. Tutta l’umanità si raduna a Babele, presso questo re, e il suo progetto è quello di non disperdersi, di farsi un nome immortale, di “scalare il cielo”. È quello che noi oggi chiameremmo il progetto di una “superpotenza”, di un potere che occupa tutti gli spazi. Il commentatore ebraico Rashi, commentando questo brano, afferma: “Si dissero l’un l’altro. Una nazione all’altra: l’Egitto all’Etiopia, l’Etiopia alla Libia e la Libia a Canaan”. In definitiva “Babele è il tentativo di far coesistere in una stessa città, sotto un’unica organizzazione politica, ispirata dalla stessa ideologia, tutte le nazioni del mondo” (A. Mello). Avere un’unica lingua a noi può sembrare un ideale positivo, ma qui non c’è la volontà di creare una comunità armonica, una organizzazione che tuteli la pace, ma una superpotenza che schiaccia la libertà delle persone.
Il popolo di Israele sapeva come avveniva questo: attraverso la schiavitù si realizzavano grandi opere, come le piramidi e le Ziggurat, e anche la tecnica viene messa al servizio di questo potere, con la fabbricazione di mattoni d’argilla e con il bitume. Tutto era finalizzato a “farsi un nome”, e la vita era sacrificata, tanto che un testo midrashico dice che quando a Babele un uomo cadeva da un’impalcatura e moriva, nessuno se ne dava pensiero; ma se si spezzava o incriminava un mattone, tutti si rattristavano e piangevano (P. Gisel). Questa logica è il segno di una società nella quale prevale il profitto e il singolo è asservito alla realizzazione di un disegno in cui non c’è spazio per i diritti della singola persona né per il bene comune. La costruzione della torre nella città è l’immagine di una politica totalitaria, con un “pensiero unico, diremmo oggi. Dio perciò scende a “confondere” le loro lingue, per cui la dispersione e il ritorno alla pluralità di popoli e lingue, razze e culture. Non a caso, l’anti- Babele, che è la Pentecoste, esperienza di sentire annunciare il Signore ciascuno nella propria lingua (cfr. Atti 2,7): è una unità che viene dallo Spirito, non è imposta, perché ognuno parla la propria lingua e viene compreso dall’altro.
Oggi abbiamo avuto davanti ai nostri occhi due modi di guardare alle città e alla cittadinanza, al nostro essere impegnati da credenti ad avere una visione ed una responsabilità per la costruzione del bene comune. La città, che ha la sua origine in Enoc, è edificata da Caino, e porta sempre i tratti dell’ambiguità. Può essere una realtà buona, ma anche il luogo dove l’uomo vive la violenza, si soggioga l’altro, ci si autodistrugge. Anche nella città, come dimostra il canto di Lameck, ci può essere la sopraffazione. L’episodio di Babele ci presenta la tentazione di concepire la città come una realtà nella quale non c’è spazio per la diversità, un luogo nel quale “farsi un nome”. Il brano del Vangelo della I domenica di Quaresima fa riferimento alla città: la terza tentazione è quella del potere di chi si inginocchia.
Dal vangelo secondo Matteo, 4
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Il potere, concepito non come servizio, ma come sopraffazione dell’altro, nasce dall’aver idolatrato il proprio io, dall’essersi inginocchiato a Satana. Non è questa negazione di Dio, della sua immagine che è l’uomo, alla base dei totalitarismi del secolo scorso, il nazismo, il fascismo, il comunismo? All’inizio del tempo di Quaresima, questa nostra catechesi ci sollecita fare un esame di coscienza e a chiederci come viviamo le nostre relazioni all’interno della città. Sono animate da violenza? Sono relazioni che lasciano spazio all’altro, a chi la pensa diversamente da noi o è diverso per cultura? Abbiamo nel nostro cuore sentimenti di vendetta? E se siamo chiamati a servire il bene comune, perché lo facciamo: per farci un nome o per servire? Lo Spirito di Dio ci aiuti a convertirci nel nostro modo di “stare nella città”.
+ Luigi