di Don Antonio De Maria
Abbiamo appena concluso gli intensi giorni della festa in onore di sant’Agata e già emergono i ricordi, le risonanze di questi momenti: il popolo, la carnalità e la spiritualità della vita, gli occhi, le domande, le speranze, ciò che è nascosto nel cuore e i segreti che solo all’amica si possono rivelare.
Ho percorso dentro al baiardo prima e sulla vara poi un lungo tratto della via Etnea fini al Viale XX settembre, portandomi i miei dolori, fisici e spirituali, le mie domande incontrando i volti di coloro che si avvicinavano alla Vara con i loro dolori, fisici e spirituali, le loro domande e i segreti del cuore, per un attimo svelati dalle lacrime, dagli occhi che cercano gli occhi di Agata, trasparenti di Cristo: “Guardiamo la realtà con gli occhi di Agata” aveva detto mons. Baturi nell’omelia della messa che ha preceduto il cammino delle reliquie il 5 febbraio. E li vedevo quei volti cercare quel volto perché abbiamo bisogno di ritrovare la strada, di qualcuno che ce la indichi ancora e ci aiuti a portare la Croce sapendo che attraverso le nostri croci si intravede un altro Volto: quello del Crocifisso-Risorto che è il nostro Destino buono, ciò per cui siamo fatti e verso cui andiamo se scegliamo la via indicataci da Agata.
La parola della Croce è risuonata più volte nel magistero del nostro Arcivescovo che si è lasciato stancare dallo stare in mezzo a quel popolo, non come uno che viene e torna alle proprie faccende ma come uno che sta, cercando di capire, di condividere, di ascoltare, di fissare gli occhi in quelli dell’altro, di imparare il suo popolo.
La Croce: sin dalla prima omelia della messa dell’Aurora. “ La nostra Santuzza stringe in mano la Croce gemmata, lo strumento di supplizio divenuto manifestazione dell’Amore di Dio, che ci viene presentato in tutto lo splendore con cui lo canta la liturgia del Venerdì santo: “Ecco il vessillo del Re, rifulge il mistero della Croce, attraverso cui la Vita sopportò la morte e rese con la morte la vita”. Nelle mani di sant’ Agata quella croce è un trofeo della vittoria che ha conseguito ripercorrendo nel carcere, nelle torture e nel supplizio i patimenti di Cristo; nelle sue mani risplende la croce gloriosa perché attraverso di essa si è fatta simile al Suo Sposo per amarlo e non rinnegarlo; oggi Sant’ Agata la ripropone a noi come il trofeo di vittoria che è il suo vanto. La nostra Aituzza è la perfetta discepola di cui Gesù ha detto nel Vangelo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Agata aveva deciso di seguire il Signore, come tanti uomini e donne in un tempo nel quale essere cristiani era molto rischioso: si rischiava l’emarginazione, perché si era minoranza; o l’arresto, perché si era guardati come una setta; si rischiava di essere messi a morte se non si rinnegava Cristo e si sacrificava alle divinità pagane. Eppure lei ha scelto di essere cristiana in tempi rischiosi. Ma pensate che ci sia un tempo nella storia dell’umanità in cui non è rischioso essere e rimanere cristiani? (…) Ecco, il Signore ci ha dato in Sant’ Agata, nei martiri e nei testimoni di carità a noi vicini nel tempo, l’esempio di come si porta la croce dietro Cristo e ci insegna che la fede è per uomini e donne che vogliono correre il rischio di seguire il Signore. “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”. Cosa significa rinnegare se stessi, portare la croce, perdere la vita? Non è la rinuncia per un qualsiasi motivo alle legittime esigenze e ai diritti che ciascuno ha, ma la scelta di abbandonare le ristrettezze del nostro “io” per un motivo più grande. Rinnegare se stessi è l’atteggiamento del discepolo che, come il Cristo non è più rivolto ai propri interessi, anche a quelli legittimi, ma è totalmente libero per gli altri. “Prendere la croce” significa essere disposti ad accogliere tutte le conseguenze della scelta fatta e avere il coraggio, come Gesù, di trasformare il sacrifico in un gesto di amore. Noi pensiamo spesso di salvare la nostra esistenza chiudendoci in noi stessi, alzando barriere nei confronti degli altri, calcolando vantaggi svantaggi in termini umani, usando anche la forza e forse anche la violenza. Noi tante volte non vogliamo rischiare di portare la croce dietro Cristo, ma preferiremmo essere come san Pietro, che voleva essere lui a dire a Cristo cosa doveva fare, cioè cosa non doveva rischiare. Gesù Cristo invece propone al suo discepolo un progetto di vita diverso e rischioso: la vita si salva aprendosi a Dio, all’amore del prossimo, e donandosi.
Gesù dice che la croce bisogna portarla “ogni giorno”: il rischio di essere cristiani non è un abito per i giorni di festa, ma è un impegno quotidiano, come la tuta da lavoro o il grembiule della casalinga che vengono indossati nei giorni feriali, che sono di più dei giorni di festa. Catania ha bisogno di uomini e donne che come sant’ Agata sappiano portare la croce delle loro responsabilità, che corrano il rischio di essere cristiani tutti i giorni e in tutti i luoghi di questa città. C’è tanta gente che porta la propria croce in silenzio e dignitosamente: sono i “santi della porta accanto”. Tutti hanno una croce che portano ma occorre portarla con dignità senza cedere alle lusinghe di chi ci propone falsi modi per scendere dalla croce e chiede alla nostra Chiesa di portare con gli uomini la Croce di Cristo che non è più il segno di un fallimento ma la vittoria di un Amore così grande che può prendere la croce di tutti e renderla strumento di salvezza, di resurrezione. Una responsabilità che indica anche a coloro che hanno il compito di servire la città, gli uomini della politica che sempre più sono chiamati a smettere di guardare al proprio interesse ma a volgere lo sguardo alle croci degli uomini e delle donne, dei vecchi e dei bambini, che vivono in questa città. Anche la città ha le sue croci da riconoscere e accogliere responsabilmente e non voltando le spalle. La Croce e la responsabilità. Questo appello riemerge nel Discorso alla Città, in piazza Stesicoro: “ E Catania, da cosa ha bisogno di essere liberata? Tante volte la nostra Città ha sperimentato la liberazione da calamità naturali, quali colate laviche e terremoti; anche quando queste l’hanno distrutta o provata, Catania è risorta, come la fenice, il mitico volatile che rinasce dalle sue ceneri, non poche volte utilizzato nell’iconografia cristiana per simboleggiare la Risurrezione e divenuto il segno di questa nostra città coraggiosa. In queste circostanze Sant’Agata ha liberato i catanesi dalla rassegnazione, dalla fuga verso luoghi più tranquilli, dall’affondare nel buio della mancanza di speranza. Oggi noi guardiamo la nostra Città e vediamo tante macerie: quelle lasciate dal dissesto finanziario; della precarietà della politica, molto spesso noncurante dei tempi e dei modi della sua presenza; della diffusa illegalità; del degrado ambientale; dell’aumento della devianza minorile; della disoccupazione; della povertà economica che diventa una triste eredità che si lascia ai più giovani, soprattutto se questi lasciano la scuola già nella fanciullezza o nell’adolescenza; dell’abbandono in cui versano le periferie. Questi temi sono stati posti all’attenzione di cittadini e candidati prima delle elezioni regionali, con un documento che cattolici e uomini e donne di buona volontà hanno stilato e sottoscritto, sotto il titolo di “Non possiamo tacere”. Quelle parole hanno trovato una città stanca, così sfiduciata nelle prospettive che la politica poteva offrirle, da portarla a registrare uno delle più basse percentuali di partecipazione al voto della sua storia. Oggi Sant’Agata vuole che noi, alla luce del suo martirio, pensiamo alla liberazione della nostra patria, non da altro nemico che quello della rassegnazione, della sfiducia, del continuare che la città venga distrutta dai suoi stessi cittadini che rinunciano a darle una svolta. Liberare la città significa ricostruirla con il senso di partecipazione alla vita pubblica, rifuggendo dalla sfiducia in noi stessi, nel futuro da costruire responsabilmente e con una più consapevole partecipazione a quello che è un diritto e un dovere: il voto libero e consapevole. Che città vogliamo costruire con l’intercessione e la forza che ci dà l’esempio di Sant’Agata? Noi abbiamo lo stesso potere di Agata, quello di non scendere a compromessi con il male e di scegliere il bene, sapendo che così facendo avremo dato un segno che la nostra fede cristiana non è un oppio che addormenta la coscienza, ma è quel sale che dà sapore alla società, soprattutto quando questa diventa povera di valori, tentata di tornare ad essere il governo di pochi che tengono soggiogati gli altri nella precarietà, in problemi che si tarda a risolvere perché hanno paura di gente istruita e libera.” Abbiamo il potere di Agata, abbiamo il dovere di fuggire alla rassegnazione, abbiamo il dovere della speranza che tira la fede e la carità, suo sorelle maggiori, come ci dice Charles Peguy, quando sono stanche, quando si affaticano. La Croce e la speranza sono ciò che ci permette uno sguardo nuovo e non ci lascia rassegnare, come ci ha detto nell’omelia del Pontificale: “ Due volte è risuonato nel Vangelo che è stato proclamato l’invito del Signore Gesù: “Non abbiate paura”! (Mt 10, 28. 31). Sono parole che hanno infuso speranza ai discepoli che Gesù ha voluto preparare al futuro. Noi cristiani siamo alla sequela di un Maestro che è risultato perdente secondo la cronaca del suo tempo: messo a morte come un bestemmiatore, in compagnia di altri malfattori, e con accanto a sé non un esercito armato pronto a difenderlo, ma solo la sua anziana madre e poche altre persone, per lo più donne. Eppure il Cristo ci ha detto di non avere paura, perché la Sua morte non è l’ultima parola: può essere forse l’ultima per l’uomo, ma non per Dio, che lo ha risuscitato. Ed è per questo che noi siamo qui a celebrare il Sacrificio Eucaristico di Cristo, e a fare memoria di una donna che circa due secoli dopo la morte e la risurrezione del Suo Maestro non ha avuto paura di coloro che straziavano il suo corpo e si apprestavano a gettarlo in una fornace per finirlo. Sant’Agata è andata incontro alla morte senza la paura che dopo ci fosse il “nulla” o il “grande forse”. Credeva che ci sarebbe stato il Cristo risorto ad attenderla, lo Sposo che lei, vergine votata al Suo servizio, aveva scelto come l’unico amore. (…) Anche noi catanesi oggi abbiamo tante paure con cui fare i conti. Di una Chiesa che non abbia il coraggio di camminare con il Risorto e di rinnovarsi nella comunione e nella missione. Di laici che non si sentano corresponsabili nella vita pubblica ed esauriscano il loro impegno di santificare le realtà di questo mondo, nel perimetro delle associazioni o delle parrocchie, o deleghino questo impegno ai ministri ordinati.
A Catania abbiamo paura di un futuro che impoverisca la nostra città. Abbiamo paura di una politica del “si è fatto sempre così”; che non sia frutto di scelte condivise e rinnovate. Abbiamo paura di una politica che non risolva i problemi della città, ma li complichi con amministratori poco competenti, eterodiretti, con problemi in sospeso con la giustizia, che non danno esemplarità in una città che ha al suo interno una parte della sua popolazione agli arresti domiciliari. Per questo chiediamo a Sant’Agata che ci faccia risuonare come rassicuranti le parole di Gesù: “Non abbiate paura”. E che ci faccia essere decisi come lei.
Non abbiate paura non è una frase che lascia tranquilli, come il famoso oppio dei popoli, che addormenta la coscienza e muove al disimpegno e alla delega in bianco, che non si può più rinnovare. Quello che purtroppo è divenuto un costume, che elezione dopo elezione ci fa perdere pezzi di cittadinanza e di vita democratica, ha le sue cause che le persone intelligenti conoscono, e richiede che la speranza si organizzi e ci veda corresponsabili.
Non abbiate paura, come sant’Agata. Cioè abbiate speranza. Sant’Agostino scrive: “Chi gode nella speranza, avrà un giorno anche la realtà. Chi invece non ha speranza non può arrivare alla realtà” (In Io ep. Tr.8,13).
Il poeta francese Charles Peguy dice che la speranza è “quella piccina, che trascina tutto. Perché la Fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà. La Carità non ama che quello che è. E lei, lei ama quello che sarà. (…) Non è una schiava, questa bambina è irriducibile. Lei replica per così dire alle sue sorelle; a tutte le virtù, a tutti i misteri. Quando loro scendono lei sale, (è molto ben fatto). Quando tutto scende solo lei risale e così le doppia, le decuplica, le allarga all’infinito. Dio ci ha fatto speranza.” Che la speranza prenda per mano la fede dei devoti di sant’Agata, le istituzioni; prenda per mano la carità politica e la carità per i poveri; e le porti nella terra del futuro.
Questa fanciulla Santa di nome Agata dice a tutti. “Abbiate speranza! Rialzatevi. Costruite la Chiesa e la vostra città, portando nel futuro una fede sincera ed una carità operosa. Soprattutto una operosa carità politica, che sappia fare alleanze tra le generazioni, coinvolgendo i giovani, e con tutti i quartieri, anche i più periferici, perché Santa Aiutuzza non fa differenza fra le vie eleganti del centro e le strade dissestate di periferie. Io ho creduto nel Dio che conta i capelli del nostro capo”.
Vedo qualcosa di nuovo, qualcosa da dire a quegli occhi che si incontrano: un intreccio di sguardi tra me e loro e Sant’Agata. Una speranza per la mia Città e per la mia Chiesa. E mentre il dolore mi piega la schiena accolgo una voce che dice: Padre, possiamo pregare insieme? Si figlio. Padre nostro che sei nei cieli..Tutto è nelle tue Mani come ciascuno di noi…Signore aiutaci, sant’Agata prega per noi e con noi… Cittadini…