Nel ritiro mensile del Clero, avuto luogo il 17 maggio scorso presso il Seminario arcivescovile, sono stati ricordati alcuni giubilei sacerdotali fra i quali il 52° di Mons. Salvatore Gristina. L’Arcivescovo Mons. Luigi Renna ha esortato i ministri ordinati a vivere il ritiro come un prolungamento nella giornata della preghiera, che permetterà di curare la propria vita spirituale, ma anche quella pastorale. Di seguito il testo della riflessione:
Carissimi presbiteri e diaconi,
mi è sembrato opportuno, in questo Tempo pasquale, nel periodo liturgico che segue la celebrazione nella quale abbiamo rinnovato le promesse sacerdotali, ritornare con voi sul libro degli Atti degli Apostoli, che con il Vangelo e con l’Apocalisse viene proposto al nostro ascolto ogni giorno, per riflettere sul nostro “essere Chiesa”. Da qualche giorno è stata inviata a Roma la relazione del nostro cammino sinodale, che ha raccolto le narrazioni che hanno caratterizzato il percorso che abbiamo vissuto a vari livelli nella nostra Chiesa locale. Ve ne parlerò durante l’assemblea del clero del 10 giugno prossimo, e ve ne consegnerò una sintesi durante la veglia di Pentecoste. Ma sento l’esigenza che nell’ascolto della Parola, il nostro cuore si plasmi sempre più all’ascolto dei fratelli e delle sorelle che ci vengono affidati nel ministero. Vivere il ritiro, cominciando dalle lodi che ciascuno di noi ha celebrato personalmente o nelle comunità religiose, prolungare nella giornata la preghiera, ci permetterà di curare la nostra vita spirituale, ma anche quella pastorale. In un bellissimo passaggio nel discorso ai presbiteri che papa Benedetto XVI ha tenuto durante la visita pastorale a Frosinone, ha detto. “Il tempo che ci riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio “lavoro pastorale”. Credo che dopo l’ascolto torniamo ai nostri fratelli con il cuore più libero e più ardente: Egli ci fa comprendere che è Lui, il Signore, a guidare la vita della Chiesa nonostante i nostri peccati e limiti e lo Spirito ci indica vie nuove, forse diverse, quanto a priorità, di quelle che possiamo pensare noi.”
Ho scelto di guidare io stesso questo secondo ritiro da quando sono con voi, per dare continuità ad un percorso di Chiesa che stiamo facendo ormai da tre mesi. Sono contento che oggi molti di noi, a partire da S.E. mons. Gristina, celebrano il loro anniversario di ordinazione presbiterale: a mons. Gristina e a tutti i festeggiati va il nostro augurio e per loro la nostra preghiera.
Perché ritornare sugli Atti degli apostoli in questo tempo di sinodalità? Perché è il tempo in cui stiamo “re-imparando” ad essere Chiesa, e gli Atti ci narrano il nascere della Chiesa, che va da Gerusalemme fino oltre i confini della Giudea e del giudaismo, verso il mono pagano del tempo, di cui Roma era il centro.
La comunità che nasce dall’annuncio pasquale
Il brano di At 2,42-47 si colloca dopo due narrazioni: quella della Pentecoste e quella del discorso di Pietro e costituisce il “primo sommario” di Atti, che ci dà uno “spaccato” della vita dei primi cristiani, il “sogno” di Dio che si realizza e che diventa modello per ogni comunità di fede, fino alla fine dei tempi.
C’è un avverbio centrale in questa descrizione, che costituisce una sfida per la nostra fragilità di uomini piuttosto inclini alla autoreferenzialità: omotumadon, ossia insieme. Ma c’è anche un participio: proskarterountes (erano assidui) che dice vita comunitaria non si costruisce in un giorno, ma è un processo dinamico di “compaginazione” (Sabino Chialà), nel quale l’elemento temporale è quello della nostra umanità che cresce, che si sviluppa, che conosce anche le sue battute d’arresto. Tutto in questo brano parla di unità, ma vediamo come essa si costruisce e si manifesta. Non potremmo comprenderla se ad essa non dessimo dei contenuti, che sono come la strada che permette di vivere in quella concordia che ci sembra così idilliaca: essa nasce perché i discepoli del Signore scelgono di condividere la vita e la fede in questo modo. La concordia e la comunione sono un dono di Dio che trova un terreno fecondo quando noi scegliamo uno stile di vita.
I discepoli erano perseveranti nell’ascolto della didaché degli apostoli, nella koinonia, nella fractio panis, nella preghiera. Sono credenti che rimangono ancorati all’insegnamento degli apostoli: quel legame li mette in relazione con Cristo stesso, è vissuto come un ritornare costantemente alla sorgente, che è l’insegnamento dato dal Signore. Cosa ascoltano? Certamente il kerigma, l’annuncio centrale della novità cristiana, ma anche tutto ciò che pian piano dà forma ad essa, come le beatitudini, il comandamento dell’amore, quella trasmissione orale dei Vangeli che diventa testo scritto e che nella Chiesa continua nella Tradizione e nel Magistero che interpreta la Parola.
La comunità cristiana ha nell’ascolto dell’annuncio il suo fondamento. Ma c’è poi una ricchezza di relazioni: la koinonia, che qui ha ancora dei caratteri generali, ma che si definirà in seguito come condivisione dei beni (cf 4,32-5,11). È una condivisione che, proprio perché sembra rimanere ancora abbozzata, fa intravedere che essa si costruisce con tante situazioni che fanno convergere verso l’unità.
Infine due riferimenti alla liturgia e alla preghiera: la prima espressione designa la celebrazione che fa memoria della fractio panis istituita da Gesù, ed è unita alle preghiere, che erano gli stessi che scandivano la vita di un pio ebreo. Essa è lode a Dio (proseukais), e non richiesta di beni materiali.
Questi quattro elementi vengono esplicitati, e vengono introdotti da una parola che sembra fuori luogo: un senso di timore (phobos) regnava tra di loro: non è la paura che fa chiudere il cuore dell’uomo e lo fa fuggire dalle situazioni, ma è il timore di Dio, il senso di una Presenza, verso la quale la comunità cristiana è come Mosè che si toglie i calzari prima di avvicinarsi al roveto ardente. Con il senso di timore sembra contrastare la gioia e la semplicità di cuore, che sono il clima nel quale si vivono le relazioni, coltivate alla luce della didaché, della koinonia, della fractio panis, della preghiera.
Cari fratelli, cosa è questa vita della prima comunità? È certamente la testimonianza di una Chiesa che realmente vive le primizie dello Spirito, ma anche “un traguardo ideale per tutti i cristiani che si sarebbero succeduti nella storia, sino alla parusia del Signore”. (Benigno Papa) È un traguardo ideale anche per noi. A volte aneliamo alla comunione, ne sentiamo il bisogno perché il desiderio di essa è inscritto nella nostra umanità, ma forse dimentichiamo che essa ha delle vie da percorrere. Un ascolto che è uno stare nell’insegnamento degli apostoli: a volte esso diventa difficile, perché si preferisce una autarchia del pensiero, persino di quello ecclesiologico. Papa Francesco nella Evangelii gaudium ci ha messo in guardia dal neo-gnosticismo: è una forma di conoscenza elitaria, che disprezza la comunità, a volte anche lo stesso magistero, in nome di cosa? Forse semplicemente di sé stessi! Le parole che egli ci dona nella Evangelii gaudium sono in contrasto con il brano degli Atti. Ascoltiamo quanto egli ci dice in EG 78:
Oggi si può riscontrare in molti operatori pastorali, comprese persone consacrate, una preoccupazione esagerata per gli spazi personali di autonomia e di distensione, che porta a vivere i propri compiti come una mera appendice della vita, come se non facessero parte della propria identità. Nel medesimo tempo, la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori di evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore. Sono tre mali che si alimentano l’uno con l’altro.
Proviamo a confrontare queste espressioni con quelle di At 2, 42-48, e troveremo che sono il contrario della vita fraterna, della preghiera in comune, della celebrazione della Eucarestia.
Il primo sommario di Atti si conclude con una espressione dal sapore missionario: “Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2,48). La missione è opera di Dio che si serve di una comunità che attrae e che mostra il suo volto autentico. Ma quando noi viviamo nel relativismo, agiamo come se Dio non esistesse, come se non esistessero persone da evangelizzare, allora la nostra comunità “perde pezzi”.
Cari fratelli, il brano di Atti ci interroga sul nostro modo di essere comunità: di essere Chiesa e di essere presbiterio. Ci presenta anche la misura della nostra spiritualità: o la nostra spiritualità è comunitaria o non è spiritualità cristiana, ecclesiale, nutrita dall’ascolto della didaché degli apostoli, dall’Eucarestia e dalla preghiera in comune, dalla koinonia che prende le varie forme della nostra vita, che vanno dalle piccole alle grandi cose, dallo scegliere di agire autonomamente oppure in comunione con il vescovo e i confratelli. Facciamo oggi una verifica della nostra vita di presbiterio e di pastori delle comunità alla luce di Atti 2, 42-48. Verifichiamo come viviamo l’ascolto della Parola o della Chiesa; come viviamo la comunione nelle decisioni; come celebriamo l’Eucarestia e la preghiera comunitaria. Soffermiamoci su quell’aggettivo che traduciamo con “essere perseveranti”: la vita cristiana è un cammino che richiede fedeltà, che si coniuga anche con le età della vita. L’entusiasmo dei primi anni, l’abitudine del quarantenne e del cinquantenne, ma anche la sua maturità, la terza età che raccoglie i frutti della perseveranza e ne chiede di nuova. In quell’assiduità c’è la nostra vita con le sue varie stagioni.
Con accenti mistici, Anna Maria Canopi, scriveva: “Questa giovane comunità dal volto bellissimo appare veramente come una vergine casta e radiosa, perché tutta pervasa dall’amore, e proprio perché innamorata, canta la sua gioia”. Lasciamoci anche noi “trafiggere il cuore”, come gli ascoltatori del discorso di Pietro, perché una nuova stagione di vita ecclesiale fiorisca nel nostro tempo.
Lo stile missionario
Papa Francesco in EV 78 afferma:
Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero. È degno di nota il fatto che, persino chi apparentemente dispone di solide convinzioni dottrinali e spirituali, spesso cade in uno stile di vita che porta ad attaccarsi a sicurezze economiche, o a spazi di potere e di gloria umana che ci si procura in qualsiasi modo, invece di dare la vita per gli altri nella missione. Non lasciamoci rubare l’entusiasmo missionario!
Lo slancio missionario scaturisce naturalmente dall’essere perseveranti come la prima comunità. Ma come agisce il discepolo nella sua missione? Ci poniamo ora in ascolto di Atti, 8,26-40. Il contesto è quello di una Chiesa perseguitata, che ha visto nascere al cielo il suo primo martire, Stefano, e vive la diaspora che, poiché è guidata dallo Spirito, fa sì che il Vangelo si diffonda nonostante tutto. Filippo non è l’apostolo, ma uno dei sette a cui è affidato il servizio delle mense (cf 6,3). Il primo annuncio che egli fa in Samaria incontra l’ostacolo del fraintendimento: il celebre episodio di Simon Mago, quello in cui la fede rischia di essere manipolata e addirittura oggetto di un commercio. Il secondo episodio si trova davanti ad un altro ostacolo, quello del mondo pagano con la sua incomprensione del mistero di Cristo.
Filippo viene inviato da un angelo in un luogo e in un orario che costituiscono un presupposto per l’insuccesso: a mezzogiorno (come traduce la BJ) e su una strada deserta. L’annuncio del Vangelo batte anche strade così difficili, non cerca le folle, va anche per vie deserte e per orari improbabili: non ha orari e confini!
L’incontro con un uomo che è un “concentrato” di ostacoli: è un eunuco (Dt 23,2), che non può entrare nel Tempio; è un funzionario di Candace d’Etiopia (un nubiano su cui riposa la maledizione di Cam, in Gn 9,25 («Sia maledetto Canaan!Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!»).
Per la prima volta un annuncio ad una persona singola con condizioni escludenti, ma che rivela lo stile missionario della Chiesa.
Lo Spirito guida Filippo: non si muove da solo. Filippo è un uomo che è attento alla voce dello Spirito: “Va avanti e accostati” (8,29). Farsi avanti e accostarsi, sono i verbi di chi va in missione, del discepolo che non rimane a guardare, che non guarda dall’alto in basso colui che è eunuco e straniero. Quel verbo (kolletheti), richiede una grande conversione: non è solo Filippo che fa il primo passo, è la Chiesa che si muove in quella direzione, che si converte, che supera le ritrosie e pigrizie. Filippo instaura un dialogo e quindi sale sul carro: si viene a creare una relazione dialogica, molto simile a quella di Gesù con i discepoli di Emmaus. Il Signore che si accompagna a coloro che non comprendono le Scritture ora è il discepolo, è ogni discepolo, sei tu presbitero, diacono, catechista.
L’eunuco sta leggendo Isaia, ma ha bisogno di chi gli spieghi cosa sta leggendo. Mi fa pensare a sant’Agostino che leggeva le Scritture, ma le comprese solo quando Ambrogio, che aveva la sua casa aperta a tutti, e lo si poteva vedere anche quando era immerso nello studio, gliele fa comprendere come un vero pastore sa fare. L’eunuco risponde alla domanda di Filippo con una certa apprensione: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo?” (8, 34). L’eunuco sta leggendo un brano di estrema bellezza, che lo affascina, perché parla di un Uomo sofferente, di un agnello mansueto, nel quale tutti i “vinti” (direbbe Verga) della terra si ritrovano. Filippo spiega, partendo dal quel brano e annuncia, come fece Gesù lungo la strada di Emmaus.
C’è una seconda domanda che costituisce una pietra miliare nella vita della Chiesa: “Cosa impedisce che io sia battezzato?” Questa parola, impedire (kolei), è importantissima. Gesù in Lc 11, 52 la usa per dire che i dottori della Legge impediscono l’accesso al Regno di Dio a coloro che vogliono entrarvi; in Lc 18,16 è usata da Gesù per dire che i discepoli impediscono ai piccoli di andare a Lui; in Atti 10,47 e 11,47 dice che Pietro si interroga se può escludere il Cornelio pagano dal battesimo. E il libro degli Atti si conclude con quello che fa Paolo mentre è prigioniero a Roma: annuncia il vangelo con parresia e senza impedimenti. Comprendiamo quanto è importante “non impedire”, quanto è importante superare tutto ciò che non ci permette di annunciare la salvezza? Mi piace fare riferimento al commento di Sabino Chialà:
Il momento è talmente carico di tensione, che alcuni manoscritti inseriscono qui una glossa antica con cui Filippo sembra prendere tempo: “Filippo dice: Se credi con tutto il cuore, è permesso” Questi rispose. Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio” (v.37) nel testo originale invece la risposta è risoluta e rivoluzionaria. “Fece fermare il carro e scesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò”. Filippo si prende la responsabilità di questa novità, con una libertà che sorprende. Ma in questo gesto egli si coinvolge interamente, come Luca sottolinea con grande finezza narrativa, precisando che scesero insieme nell’acqua e ripete “Filippo e l’eunuco” (S. CHIALA’, Lo Spirito Santo e noi, Bologna 2019, 88).
Cari confratelli, il brano di At 8 ci costringe a chiederci se i nostri verbi sono quelli di Filippo:
L’ascolto della voce dello Spirito: “Va avanti e raggiungi…!” una preghiera autentica spinge alla missione, altrimenti diventa il breviario da recitare come fa don Abbondio… Pregare veramente significa sentire la voce dello Spirito che mi spinge. Se non facciamo da mesi una catechesi, se passiamo più tempo a casa o in sagrestia piuttosto che con la gente, forse è perché siamo divenuti sordi alla voce dello Spirito. Se giudichiamo e non ascoltiamo, forse siamo in coloro che si sono lasciati rubare qualcosa della loro vocazione, ossia la missione.
Se l’attenzione agli impedimenti di certa ideologia che si spaccia per teologia ha preso il sopravvento sull’ansia missionaria, allora abbiamo perduto anche la gioia di annunciare. Da questa tristezza ci mette in guardia papa Francesco.
Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. Anche i credenti corrono questo rischio, certo e permanente. Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita. Questa non è la scelta di una vita degna e piena, questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto. (EG 2)
Mettiamoci in ascolto della Parola, e anche qui: lasciamoci “trafiggere il cuore” perché come accadde per Filippo, si rinnovi la gioia dell’annuncio del vangelo, anche sulle strade deserte e, come il Signore ad Emmaus, anche noi diveniamo viandanti dell’umanità, per edificare la Chiesa nella carità.
+ Luigi