di Don Antonino De Maria
La grande tentazione che percorre anche il cuore più generoso di un parroco è quello di stare davanti alla sua comunità come solitario Mosè davanti a Dio. In questo modo egli non solo si carica di un peso eccessivo che lo trascinerà tra le cose da fare lasciandolo nella sua eroica solitudine anche senza Dio, perché il suo tempo ha perso la qualità del rapporto con Colui che è eterno ed entrato nel tempo; ma, soprattutto, gli fa perdere la consapevolezza che egli stesso è compagno di viaggio insieme alla sua comunità e non il leader. Spesso il leader chiede la stima degli altri e pretende di essere seguito per il ruolo che riveste: in questa condizione accade che si circondi di quei pochi che lo riconoscono tale e si ponga con il resto della comunità in una posizione di contrasto. Non siamo, noi preti, chiamati ad essere leader: semmai compagni autorevoli e guide sostenute dal popolo di Dio che ascolta, insieme a lui, la Parola di Dio e accoglie il soffio dello Spirito. Guarda al Vescovo come segno di unità e non come superiore datore di beni e alla propria comunità non come una brigata solitaria slegata dal cammino comune della Chiesa diocesana.
In questo modo la giurisdizione della Parrocchia, i suoi limiti territoriali, non sono il campo del suo regno e della sua battaglia per affermare la sua autorità. Hanno altre ragioni mentre la Parrocchia è pars di un tutto, la Chiesa locale, nella quale il tutto è presente. Allo stesso modo come nel rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare, nella collegialità tra Vescovi e Vescovo di Roma che ha il ministero dell’unità nella carità.
I due legami, la propria comunità e la comunità diocesana, richiedono uno sguardo più largo e un senso di appartenenza più dilatato: alla comunità diocesana tutta e a tutto il presbiterio, luogo di collegialità e di comunione con il Vescovo.
Ciò lo pone in un duplice ascolto: dei fedeli della sua comunità eucaristica e della più grande pars populi Dei che è la Diocesi. Questo sguardo ha i suoi modi di esprimersi: il Consiglio pastorale, per esempio ma si dilata nella partecipazione alla vita del Vicariato come luogo già più largo della comunione anche presbiterale. Cammina insieme al popolo e ai confratelli e, con l’aiuto del Vescovo, alla Chiesa diffusa su tutta la terra.
Una immagine usata da Papa Francesco per i Vescovi, può essere di aiuto anche per il ministero del Parroco e dei presbiteri. Il Papa parla del Vescovo: “ Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade. Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, dovrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Codice di diritto canonico[34] e di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti. Ma l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti.” (Ev. G. 31)
Il territorio parrocchiale è l’immediato campo della missione della comunità parrocchiale e non l’elemento umano, esclusivo, della gestione di servizi: io servo solo i miei; gli altri devono lavorare, non solo io, blà, blà, blà, etc. Spesso questo campo ha confini fluidi, apparenti, poiché l’appartenenza ad una comunità fuoriesce dalla considerazione della residenza come criterio e la presenza di carismi laicali spesso sfugge a questa limitazione. Non può esistere il mio, il tuo, semmai il nostro vissuto nella comunione del ministero e della missione. Gli stessi carismi, riconosciuti come validi strumenti di vita cristiana ed ecclesiale non vanno “usati” ma coinvolti secondo il dono dello Spirito che li ha suscitati e valorizzati nell’unità che non è uniformità. Siamo ancora lontani in molti casi da questa accoglienza dei carismi e non si riesce ad uscire fuori dalla visione clericale del “Dovete fare quello che dico io” che si sostituisce a Dio stesso che invece dice: “Dovete essere e vivere ciò per cui vi ho suscitati”.
Una pastorale integrale è una pastorale caleidoscopica eppure unitaria ma non uniforme e uniformante, dove il Consiglio pastorale ove convergono tutti può diventare il luogo del discernimento e non il luogo in cui il Generalissimo parroco dice quello che ha deciso e si aspetta che i colonnelli facciano in modo che la truppa obbedisca.
“La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia. Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure. L’importante è non camminare da soli, contare sempre sui fratelli e specialmente sulla guida dei Vescovi, in un saggio e realistico discernimento pastorale.” (Ev. G. 33)