di Don Antonino De Maria
È tradizione, alla fine di ogni anno, cantare nelle Chiese latine un antico inno, di incerta attribuzione, che inizia: Te Deum laudamus, te o Dio lodiamo. Lo si canta alla fine dell’ufficio delle letture di ogni solennità o in alcune occasioni importanti, come alla fine di un conclave, eletto il nuovo Papa.
Questo inno esprime il culto di lode della Chiesa rivolto alla Trinità, anche se più direttamente al Padre, al creatore e reggitore dell’universo. La Chiesa si unisce al coro degli angeli che come in Is 6 cantano il trisaghion, il tre volte santo. Al coro angelico ora si unisce quello degli apostoli, dei profeti e dei martiri, come in Apocalisse: tutto quello che il Padre ha salvato mandando il Figlio e lo Spirito.
E al mistero del Figlio incarnato si rivolge il canto della Chiesa: a Colui che ha accettato di nascere nel seno della Vergine e con la sua Croce ha aperto il cielo, l’eternità della vittoria sulla morte, ai credenti. Egli il giudice misericordioso al quale la Chiesa si rivolge chiedendo soccorso, per quel Sangue versato, prezioso, che dice quanto l’uomo sia per Lui prezioso. Il popolo dei credenti invoca ogni giorno l’aiuto e quella benedizione che sin dall’inizio del mondo è stata rivolta, in Lui, a tutta la creazione, e soprattutto a quella fragile creatura, capace di perdersi, di voltargli le spalle, eppure amato, come dice Paolo iniziando la sua lettera agli Efesini.
Questo canto manifesta la fede della Chiesa e risuona degli inni di benedizione del popolo della Parola, anch’esso segnato nella quotidianità dal canto di lode e di benedizione: a questo popolo della Parola, il popolo della Parola fatta carne deve questa capacità di leggere il tempo e gli avvenimenti, anche quelli più dolorosi, nel mistero dell’amore di Dio, che non viene mai meno, anche nel lager o nel gulag; nella solitudine, nella povertà; nella famiglia, nella propria terra o in esilio; anche lì dove ciò che sembra prevalere è l’egoismo dell’uomo, l’indifferenza, la durezza del cuore. Questo amore che accolto umanizza il cuore e rende l’uomo capace di donare la vita, consapevolmente o inconsapevolmente, come Cristo, diventa la nuova chiave di lettura di tutto.
Tutto è retto da Dio: per questo l’uomo peccatore, fatta l’esperienza del male, della sua capacità di compiere il male, non sprofonda mai totalmente nel Nulla. C’è sempre una speranza, la speranza di Dio e la speranza del cuore pentito: Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Sia su di noi, Signore, la tua misericordia, poiché la nostra speranza è in Te. Chi si affida a Te non resta confuso.
In questo mondo globalizzato che ha cominciato ad accorgersi della morte; che l’ha valutata, però, a misura dei numeri; in questo mondo “malato”, come lo definì Papa Francesco, pregando davanti alla Croce, in quella sera del 27 marzo, in quella apparente piazza san Pietro vuota perché dilatata come un abbraccio al mondo intero, dove vivi e morti pregavano con le sue parole; qui e ora, alla fine di questo anno, cantare il Te Deum assume, spero, una consapevolezza maturata nel dolore: senza di Te, Signore, tutto è perduto. Non abbandonarci nella nostra precarietà ma volgi il Tuo Volto sulla nostra miseria. Aiutaci ad alzare lo sguardo e dilata la misura del nostro cuore perché accada un nuovo inizio, a partire da me, a partire da ogni uomo. Lì dove il cuore indurito, lamentoso, accidioso, egoista, dell’uomo si scioglie accade una nuova alba, un nuovo inizio, splende una nuova luce di speranza: la tua luce, Signore. Contare i morti non serve se non cambiamo noi. Per questo, a te che sei l’unica vera nostra speranza: Te Deum laudamus, Te Dominum confitemur…non confundar in aeternum.