di Don Antonio De Maria
È tempo di letture, tempo difficile per molti versi che ferma il solito e chiede di non sprecarlo. In questo tempo ho ripreso una lettura già fatta, tante volte, e mi sono imbattuto in questa espressione: “sa che non può salvarsi da solo”. Un’espressione che sentiamo ripetere spesso, formulata in modo al quanto simile o attraverso una meditazione più ampia, sulla bocca degli ultimi Papi, anche papa Francesco.
Eppure essa fa parte di una più lunga citazione critica verso il cristianesimo di Gabriel Séailles, che tracciava i ritratti del cristiano e dell’uomo moderno: Il primo “che si ritira dalla città degli uomini, unicamente preoccupato della sua salvezza, che è faccenda tra lui e Dio” e “l’uomo moderno, che accetta il mondo e le sue leggi risoluto di farne uscire tutto il bene che comportano”. L’uomo moderno “ non può staccarsi dagli altri uomini; conscio della solidarietà che l’unisce ai suoi simili e che fa di lui, in un certo senso, un loro dipendente, sa che non può salvarsi da solo”.[1] Fino a che punto questa lettura è errata? Si tratta solo di un problema del cattolicesimo a cavallo tra XIX e XX secolo?
De Lubac
De Lubac risponde alle accuse degli intellettuali positivisti che “il cattolicesimo è essenzialmente sociale. Sociale nel senso più profondo della parola: non soltanto per le sue applicazioni nel campo delle istituzioni naturali, ma prima di tutto in se stesso, nel suo centro più misterioso, nell’essenza della sua dommatica. Sociale a tal punto che avrebbe dovuto sempre apparire un pleonasmo l’espressione <<cattolicesimo sociale>>.”[2]
De Lubac scrive in un periodo in cui già la storia della santità sociale aveva superato il millennio e la dottrina sociale della Chiesa, nelle sue fonti magisteriali, aveva cominciato i suoi primi passi.
Eppure mi sembra di continuare a sentire dall’una e dall’altra parte, ad extra e ad intra, le stesse polemiche: mentre la società post bellica si costruisce intorno ai diritti fondamentali dell’individuo, il Concilio Vaticano II con Gaudium et Spes aveva sottolineato l’unità del genere umano e l’interesse del cattolicesimo per tutto ciò che riguarda l’uomo, anche la città dell’uomo, il mondo come ambiente umano. Perché allora continuiamo a paventare un cristianesimo sociale come paravento comunista e nella pastorale comune preferiamo un approccio devozionale, tranquillizzante, spiritualmente orientato individualisticamente e si fa fatica a costruire la città di Dio dentro la città dell’uomo?
Rispondere a questa domanda richiede una mole di citazioni che renderebbe troppo lungo questo articolo. De Lubac già nel 1936 proponeva la questione come oblio del dogma che aggrava le mancanze della morale: cioè l’agire del cristiano non si fonda sulla consapevolezza del mistero cristiano stesso. Oggi come allora la riduzione di Cristo a fondatore di una salvezza individuale ed escatologica si accompagna ad un impegno sociale ancora volontaristico, sentimentale, delle buone intenzioni che non è rettamente fondato e che quindi appare insignificante per la società post-moderna. Spesso anche noi siamo schiacciati tra l’impeto etico e la ricerca tranquillizzante di qualcosa che alleggerisca la fatica di vivere proiettandola in un consolante futuro extra mondano.
I Papi di questo secolo
I Papi di questo secolo a cavallo tra primo e secondo millennio hanno cercato di superare questo gap tra l’abitare il mondo, che pur nelle sue contraddizione è sempre ed essenzialmente luogo di Dio, del Creatore, e la certezza che il compimento del cammino umano è oltre il mondano, al di là del tempo, nell’eternità di Dio. Questi due aspetti devono essere tenuti insieme: per questo ogni vera antropologia cristiana è innanzitutto cristologica e ogni visione del mondo trinitaria. Porre al centro l’uomo nella sua interezza non può sfociare in un antropocentrismo immanente se l’Uomo vero è Cristo e l’impegno nel mondo non scade nella mondanizzazione, nel fare fine a se stesso, se è manifestazione consapevole dell’agire di Dio Trinità nella storia.
Possiamo provare a leggere il cammino del magistero sociale soprattutto da Populorum Progressio di San Paolo VI fino a Fratelli tutti di Papa Francesco (che cita tantissimo Papa Benedetto XVI e San Giovanni Paolo II) a partire da questo rinnovato gusto per il fondamento evangelico, cioè per il dogma cristiano?
Scusate se può sembrare difficile e difficoltoso, persino stolto, il mio pensiero ma, credo, sia proprio il paradosso dell’Incarnazione.
[1] Les affirmations de la conscience moderne, 3 ed. 1906, p. 108-109. Citato sa H. De Lubac, Cattolicismo Aspetti sociali del dogma, trad. it. a cura di Elio Guerriero, Jaca Book, 1978, p. XXII. Prima edizione in francese 1938
[2] Cattolicismo, op. cit., p. XXIII