di don Antonino De Maria
Pur avendola letta e ascoltata tantissime volte, mi è risuonata ancora più forte e attuale, in questo contesto storico, quella parte della lettera ai Filippesi che abbiamo proclamato come seconda lettura nella Messa della XXVII domenica per annum dell’anno A.
Il contesto è il perpetuarsi di un fuoco “amico” contro il Santo Padre Francesco, proprio nel giorno della firma dell’enciclica sociale Fratelli Tutti, sulla quale mi riservo di scrivere più avanti.
Le parole rassicuranti dell’intervista rilasciata dal Card. Ruini (Criticare il Papa non significa essere necessariamente contro di Lui) non bastano a togliermi la sensazione che il tentativo di delegittimare il Papa, in fondo, crei un danno più grande alla Chiesa stessa e al significato del ministero magisteriale dentro la Chiesa stessa.
Ma andiamo per ordine. Paolo scrive, alla fine della lettera ai Filippesi: “In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!” (Fil. 4, 8-9). Già prima Paolo aveva scritto: “Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi” (Fil. 3, 17)
Per ben due volte Paolo invita a considerare paradigmatico per la sua comunità e per la sua vita cristiana non solo il suo messaggio ma la sua stessa persona.
La nostra mentalità, così attenta a non scadere nel protagonismo, nell’autocelebrazione, nel soggettivismo, un po’ si chiede se forse Paolo non abbia una pretesa eccessiva, se non si metta in mezzo tra coloro che hanno creduto alla sua predicazione e Cristo, fonte della loro salvezza e centro della loro fede.
In realtà Paolo sa che l’incontro con Cristo avviene attraverso l’incontro personale e la relazione vitale con l’apostolo e non soltanto con il messaggio. Egli stesso ai Corinzi dirà fatevi miei imitatori, non avete altro padre che me.
Egli difende questo suo ruolo genetico che non fa da filtro fra i discepoli e Cristo ma ne avvera la possibilità di incontro: Cristo lo puoi incontrare solo attraverso il Testimone qualificato: Colui che il Signore ha scelto per generare la sua Chiesa nella grazia e convocarla come assemblea liturgica e missionaria. Questa chiamata legittima questo tramite personale e relazionale. Così avviene per gli Apostoli della prima ora, come per Mattia e per Paolo.
Egli è, insieme agli altri, il garante di questa adesione a Cristo, del vero Cristo: in qualche modo ne diviene la forma, pur nella diversità dei caratteri, dei temperamenti, dei carismi. Una forma plurale e unica allo stesso tempo, frutto del medesimo Spirito.
Fuori da questa forma è la parcellizzazione del messaggio, il protagonismo di chi si arroga un ruolo che non ha perché non è stato scelto per questo o si è staccato dalla comunione.
Bella è l’immagine di quella stretta di mano tra Paolo e Pietro, Giacomo e Giovanni, descritta nella lettera ai Galati.
Mi pare, dunque, che il tentativo di delegittimare il Papa che sta avvenendo davanti ai nostri occhi, sia il tentativo di auto proclamarsi dentro la Chiesa come diverso e più autentico Magistero, punto di riferimento della vera Chiesa contro, invece, una deriva che starebbe avvenendo nella Chiesa stessa, per colpa di papa Francesco e del suo magistero.
Il sarcasmo di certe letture del suo Magistero o dei suoi gesti, l’incapacità di non confondere la Tradizione, che è qualcosa di vivo e perciò sempre in crescita nel legame con la Fonte viva e nella fedeltà aperta alla creatività dello Spirito, e il Tradizionalismo, che pensa il legame con la Fonte come una realtà statica, della quale non si capisce il punto di inizio e che resta fissata, senza futuro, tutto questo, alla fine, nel tentativo di delegittimare il “Papa eretico”, finisce per delegittimare ogni magistero e togliere alla Chiesa quel legame personale con Cristo che passa attraverso il testimone scelto da lui. Così un finto profetismo e una spiritualità di facciata diventano nemici della croce di Cristo, come scrive ai Filippesi (3,18) Paolo.
Il Magistero diventa, alla fine, una raccolta di pronunciamenti, un messaggio vuoto, una parola vuota che non interessa più l’uomo di oggi, non lo raggiunge più, se non in quella nostalgia di un’età dell’oro che fu e più non c’è o in un continuo arrampicarsi per accreditare i propri desideri e le proprie istanze. Nemici del Papa sono, allo stesso modo, coloro che lo accusano e coloro che tentano di farlo diventare il garante delle loro scelte non cristiane.
Concludo con un’altra parte della lettera in cui più volte Paolo invita i Filippesi con l’espressione “se c’è” come per dire: non guardate alle vostre difficoltà ma alla grazia che Cristo vi ha dato di essere il Suo Corpo, perché questa grazia è più grande dei vostri peccati e vi ha raggiunto attraverso il mio ministero; se c’è in voi la consapevolezza di questa grazia abbiate gli stessi sentimenti di Cristo Gesù che
“pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedienti, non solo quando ero presente ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore. È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore.” (Fil. 2, 6-13)