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Perché non bisogna lamentarsi sempre? Quel vittimismo che chiude il cuore alla carità

di Don Antonino De Maria

Tra il 418 e il 422, Agostino risponde ad un vescovo donatista, Gaudenzio di Thamugadi (oggi Timgad in Algeria), il quale con due lettere si era opposto all’ingiunzione del tribuno Dulcizio che lo invitava a sottostare all’editto di unione del 411 dell’imperatore Onorio, esecutivo dell’esito della Conferenza tra Cattolici e Donatisti del 411 che interdiva ogni riunione della comunità donatista; la consegna delle Chiese ai Cattolici; l’ingiunzione di reprimere le odiose bande dei circoncellioni e l’esortazione a rientrare nella Chiesa cattolica.

È un periodo triste della Chiesa del Nord Africa non scevro da violenze da parte di chi si professava difensore della vera Chiesa, quella non compromessa (secondo la loro accusa) con i pagani, nei confronti dei Cattolici. E che, a sua volta, generò una dura risposta dell’impero nei loro confronti.

Ma detto questo ciò che mi interessa è quello che scrive Agostino rispondendo a Gaudenzio, cioè alle lettere che il donatista aveva scritto al tribuno.

Questo vescovo aveva minacciato di darsi fuoco dentro la sua Chiesa insieme ad alcuni adiunctis perditis[1]. Dulcizio scrive al Vescovo per invitarlo ad una reazione meno drammatica. Agostino, richiesto dal Tribuno, confuta il testo delle risposte di Gaudenzio.

Mi soffermerò soltanto su un capitoletto del primo libro perché mi sembra attuale nello scenario moderno.

26. 29. Testo della lettera: ” Ci rallegriamo dell’odio del secolo, non soccombiamo in mezzo alle sue tribolazioni, ma ce ne rallegriamo. Questo mondo non può amare i servitori di Cristo, poiché si sa che lui non ha amato Cristo; lo dice lo stesso Signore: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi “

Gaudenzio, in fondo, sta giustificando il suo comportamento, utilizzando una espressione evangelica che molti ancora oggi usano per considerarsi migliori, anzi santi.

Agostino risponde sia ad personam che proponendo un diverso modo di intendere il testo evangelico.

“Risposta al testo: Come potete rallegrarvi per l’odio del secolo, senza soccombere per le sue afflizioni, anzi godendone, se voi stessi volete darvi la morte per non soffrire alcuna molestia, e avete scelto di morire, non uccisi da altri in difesa della verità di Cristo, ma di vostra propria mano in difesa del partito di Donato? Questo è delirio dei circoncellioni, non gloria dei martiri. Le vostre gesta son lì a dimostrarlo: perché allora usurpate per voi parole dirette ad altri?”

Il vittimismo del Donatista vuole giustificare se stesso attribuendosi come merito l’odio del mondo: ma di quale mondo e di quale odio si tratta? Il mondo sarebbe individuato nell’Impero che appoggia i Cattolici e gli odiatori nei Cattolici stessi, che, tuttavia, avevano confutato in una pubblica assemblea le loro tesi, senza violenze, semplicemente con la dialettica dei fatti. Agostino e i vescovi cattolici più volte avevano chiesto ai Donatisti di ricostruire con il dialogo la comunione.

“Questo mondo non può amare i servitori di Cristo, lui che, come ben sappiamo, non ha amato Cristo “. Non è dunque a questo mondo che noi apparteniamo, perché amiamo voi. Però voi non siete servitori di Cristo, poiché rendete male per bene; e quando non potete esercitare contro di noi la vostra malvagità, la ritorcete contro voi stessi, senza amare noi e uccidendo voi stessi. Quando il Signore disse: Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi, non si riferiva a voi, ma a coloro ai quali ordinò, in caso di persecuzione nella loro città, di fuggire in un’altra: cosa che voi non fate. A costoro disse che sino alla fine dei tempi non sarebbero mancate le città in cui rifugiarsi; voi invece vi lamentate che fin d’ora esse vi mancano, e non volete riconoscere che non siete voi i destinatari di queste parole.”

Agostino ribatte Gaudenzio smontando la lettura vittimistica poiché è evidente nei suoi testi e nei suoi sermoni che egli riconosceva un legame fraterno con queste comunità e i loro vescovi; anzi fino a riconoscere validità ai loro sacramenti ma non l’efficacia che viene dallo Spirito. Essi, invece, pretendono di essere martiri cioè oggetto di una ingiustizia contro Cristo stesso: Cristo, tuttavia, ama, e invita i suoi a continuare l’evangelizzazione sopportando i mali che vengono da chi si oppone a Cristo.

Oggi si ripete la storia: alcuni si sentono martiri perché vengono invitati a correggersi e non da nemici ma da fratelli, anche nel presbiterato. Lo fanno con arroganza, gettando fango, magari di quello scadente, sugli altri. Non sapendo rispondere insultano. Ma a che serve l’insulto? Non certo a difendere la verità. La Verità non ha bisogno di difendersi né di citazioni accademiche poiché se la verità è adequatio rei et intellectus, come disse Tommaso d’Aquino, è nei fatti e non nelle opinioni che essa si può trovare.

Il finto martire, spesso, come Gaudenzio, utilizza la Scrittura, se la conosce, per giustificare la propria incapacità ad ascoltare veramente la parola del Signore: si crede nel giusto. Così il Vangelo viene usato per appoggiare le proprie preferenze politiche e non per un giudizio vero, che sa valorizzare e, prima di tutto, comprendere il punto di vista dell’altro. Come i circoncellioni ci sentiamo detentori di una verità gridata piuttosto che di una verità che incontra. E se non la pensi come me vieni subito additato, condannato: la carità a senso unico è facile.

Agostino, maestro dell’et/et, soffriva davanti alla divisione, alla partigianeria e se chiese l’intervento dello stato perché si attuasse quanto convenuto insieme, è per una duplice preoccupazione: ritrovare e riabbracciare fratelli nell’unità del Corpo di Cristo e offrire l’unica eucarestia per la salvezza di tutti e la pace. Non si nascondeva i problemi, le dinamiche della conversione del cuore, il mistero della grazia: amava veramente ognuno, anche il suo nemico. Oggi anche dentro la Chiesa tutto ciò sembra impossibile per una sorta di manicheismo politico e culturale che investe il pensiero di molti. Amare è una tragedia: significa riconoscere anche le ragioni dell’altro, non soltanto condannare ciò che ci sembra inaccettabile. E questo vale in ogni campo: delle relazioni come della vita ecclesiale o della vita sociale.


[1] Contra Gaudentium Donatistarum Episcopum libri duo, 1,1. Il testo e la traduzione italiana sono quelli pubblicati dalla NBA vol. XVI, 2. Il traduttore traduce malviventi.

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