di Don Antonino De Maria
Il 30 maggio il Santo Padre ha inviato una lettera ai sacerdoti della diocesi di Roma per incoraggiarli ma anche per ringraziarli dei messaggi ricevuti con i quali i presbiteri romani hanno condiviso con il loro Vescovo la vita in questo tempo di restrizioni che, dice il Papa: “Sebbene fosse necessario mantenere il distanziamento sociale, questo non ha impedito di rafforzare il senso di appartenenza, di comunione e di missione che ci ha aiutato a far sì che la carità, specialmente con le persone e le comunità più svantaggiate, non fosse messa in quarantena. Ho potuto constatare, in quei dialoghi sinceri, che la necessaria distanza non era sinonimo di ripiegamento o chiusura in sé che anestetizza, addormenta e spegne la missione.”
La Lettera, dopo un preambolo è come suddivisa in tre parti, sottolineate dal testo pasquale di Gv 20, 19-22. Ho chiesto a tre confratelli presbiteri di commentare le tre parti della lettera mentre, nel frattempo, anche i nostri Vescovi hanno indirizzato ai presbiteri di Sicilia una bella lettera.
Nel raccogliere gli interventi rispetterò la divisione della lettera papale.
«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore» (Gv 20,19)
L’esperienza della condivisione della fragilità, nella prossimità
Impossibilitato a celebrare la Messa crismale del giovedì santo, a causa delle restrizioni sanitarie in corso, Papa Francesco scrive al clero della diocesi di Roma consegnando a tutti un metodo di interpretazione della storia illuminato dall’esperienza credente. Nella prima parte del suo messaggio il Papa mette in relazione la prima comunità credente con il presente storico in un continuum dinamico permesso dalla fedeltà al Signore Gesù e alla storia. Oggi come allora i cristiani vivono nel mondo e per il mondo, continuando a sentire compassione per ogni uomo. Il Papa non ha paura di declinare elementi di fragilità che raggiungono anche i cristiani: la paura dell’incertezza e della morte, la sofferenza di veder morire persone care e punti di riferimento, la condizione di povertà sempre maggiore amplificata dalla crisi economica che si è acuita. Tali elementi fragili hanno come sfondo l’esperienza stessa del Figlio del Padre: come Cristo anche noi suoi discepoli siamo chiamati a sentire sulla nostra pelle la fatica della gestazione di un mondo nuovo e il dramma del limite che non ha risposta. Tutto questo interpella la fede del discepolo di Gesù e chiede una prospettiva credente: non basta soffrire con il mondo, occorre immettere in esso il lievito nuovo della resurrezione che attiva la speranza e la creatività, superando l’iniziale sconcerto e confusione. Interessante la ripresa dei verbi della Prima Lettera di Giovanni (1, 1-3) applicati non tanto all’esperienza con il Figlio del Padre, quando alla lettura della situazione storica: “abbiamo visto i volti sconsolati, la sofferenza…, abbiamo ascoltato i numeri e le percentuali che giorno dopo giorno ci assalivano; abbiamo toccato con mano il dolore della nostra gente. Abbiamo ascoltato e visto le difficoltà e i disagi del confinamento sociale”. Per Francesco c’è una interdipendenza dinamica tra l’incontro con il Signore Gesù e l’incontro con l’umanità: la luce della fede ci da la capacità di leggere con gli occhi trasfigurati dell’umanità ogni piega della storia. Ciò non è reso possibile da chissà quale dono soprannaturale di “scienza infusa”, ma semplicemente dalla condivisione della sofferenza. E’ la condivisione concreta del “piangere con chi piange e ridere con chi ride” (Rom 12,15), che rende il discepolo credente e credibile. Così come ha detto nella catechesi dello scorso mercoledì 17 giugno 2020 in riferimento a Mosè: “il vero pastore non baratta il popolo con il potere e neanche con Dio. Lo presenta a Dio, intercede per il popolo, soffre con il popolo, diventa ponte”. Il Papa invita i presbiteri della sua diocesi a sentirsi parte del mondo e se c’è cosi tanta insistenza, significa che il rischio di considerarci a guardare dalla finestra il mondo che scorre, è davvero alto! Arroccati nelle nostre paure o nei nostri piccoli mondi ove a stendo si respira “aria riciclata”, il rischio di non essere prossimi è davvero alto. E il Papa lo sa bene e per questo insiste così tanto su questo aspetto: determinante per la credibilità della nostra testimonianza. Credo che l’immagine plastica che fa sintesi della lettera di Francesco sia quella dello “stare inzuppati dalla tempesta che infuriava, mentre si avvicinano i lupi rapaci”. Sembra riecheggiare l’invito di Gesù presente in Matteo 10,10 di non portare due tuniche ne nessuna protezione. Avendo solo una tunica, non ci si può cambiare e si resta inzuppati dalla tempesta sino a quando non si asciughi da se. L’unica tunica da indossare è quella dell’umanità, la stessa che ha preso il Figlio. Non ci servono altre protezioni: occorre solo essere uomini! Anzi, la sua sequela ci rende più uomini (cfr. Gaudium et Spes 41), facendoci progettare e profetizzare il futuro in uno sguardo di lungimiranza e di attesa. Il filo rosso che lega molti pronunciamenti del Papa di questi ultimi mesi è una idea molto semplice: si cammina insieme come umanità e nel frattempo della vita, mentre si avverte la stanchezza del viaggio e le incertezze delle risposte sembrano quasi togliere il fiato, lo sguardo fisso su Cristo allarga gli orizzonti immettendo nel mondo semi di eternità che abbiano la concretezza fragrante del pane appena sfornato.
Don Luca Crapanzano Rettore del seminario di Piazza Armerina
«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20,19-21).
Nel turbinio confuso e talora indecifrabile di quanto è accaduto e sta ancora accadendo nel mondo, la considerazione pacata e colma di speranza di Papa Francesco nella sua lettera indirizzata ai sacerdoti della Diocesi di Roma nella scorsa solennità di Pentecoste, esorta a cogliere sempre un “nuovo significato alla storia ed agli eventi”, ed in particolare ad individuare perciò anche in ogni contraddizione della storia, una metastoria salvifica, un significato che scaturisce e culmina nella stessa Pasqua di Cristo:
“il Signore è stato in grado di trasformare ogni logica e dare un nuovo significato alla storia e agli eventi. Ogni tempo è adatto per l’annuncio della pace, nessuna circostanza è priva della sua grazia”.
È lo sguardo intelligente (intus – legere, capace di leggere dentro, nel profondo delle realtà e delle situazioni) di una visione realmente pasquale della storia, abitata, cioè dalla luce trasformante della resurrezione. Una storia che porta le cicatrici (“Egli mostrò loro le mani ed il fianco” cf Gv) ma proprio quelle, adesso, sono il segno più eloquente di una trasfigurazione pasquale del dolore e della sofferenza. E proprio insieme e per mezzo di tale trasfigurazione potranno giungere ai discepoli di ieri e di oggi i doni della gioia e della pace (cf. Gv 19,20-21).
Per noi ministri rileggere la storia nell’ottica di una costante risignificazione pasquale, comporta assumere lo status della “sentinella” che alla domanda: quanto resta ancora della notte risponde esprimendo prioritariamente la certezza dell’arrivo del nuovo giorno, del mattino, e che coglie quindi il primo albeggiare del giorno nuovo in ogni notte, per dirla con il linguaggio poetico del profeta Isaia, noto come lo Shomer ma mi llailah (cap. 21,11-12) .
E’ innanzitutto necessario che anche in noi ministri, come ben sa mettere in nuce nella lettera papa Francesco, si attui un processo di risignificazione della “notte” come luogo di attesa speranzosa e non rassegnata, della luce dell’alba nuova che accompagna la “poiesis” delle nuove cose, la nuova genesi inaugurata dal Risorto capace di entrare nelle paure più recondite degli uomini, di oltrepassare le porte chiuse del cenacolo più trincerato, di abitare “in mezzo alle contraddizioni e all’incomprensibile che ogni giorno dobbiamo affrontare” (lettera del Santo Padre Francesco ai sacerdoti della diocesi di Roma, 31/05/2020). L’audacia della “sentinella” sta nel cogliere già in quella notte una “Rivelazione” che illumina delle “rivelazioni”, per dirla con Novalis “E la notte fu il grembo potente delle rivelazioni” (Inni alla notte).
Il ruolo del ministro della Parola, proprio in questo contesto, assume gli stessi connotati profetici del cantico di Maria: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,51-52), una profezia, quella manifestata dal cantico di Maria che dice l’esplosione di una speranza pasquale: riconoscere già nella storia presente la vittoria del Risorto, una speranza che si incarna nella dimensione della solidarietà a cui abbiamo assistito: ben oltre la filantropia, così come sottolinea Papa Francesco, una solidarietà che fa sentire l’altro “carne della mia carne”, così come tanti sacerdoti hanno testimoniato coraggiosamente in questo tempo pandemico.
Solo comprendendo in chiave “vocazionale” questo tempo riusciremmo a scorgere il “significato nuovo” e sempre antico dello stesso, secondo un’ermeneutica appellativa, con-vocante innanzitutto dinanzi al valore della vita.
Passando da una dimensione “vocativa” dinanzi al mistero della vita e della morte, della fragilità e dell’unicità di ciascuno di noi, secondo la stessa lettura pasquale abbiamo bisogno adesso anche di recuperare maggiormente la dimensione “vocativa” dinanzi ad un cristianesimo fatto di “carne”, cioè di relazioni, di affetti, di umanità.
Siamo chiamati cioè a rileggere la nostra umanità dalla prospettiva di Gesù, che è una prospettiva di autentica solidarietà al punto da condurre la stessa umanità al cuore del Padre, solidarietà di Gesù con la nostra umanità al punto da elevarla indissolubilmente nel circolo d’amore della Ss.ma Trinità. Ed il sacerdote non può che essere pienamente partecipe e con i fratelli, tra i primi, credibilmente testimone di questa solidarietà di Dio nei confronti dell’uomo.
Santo Leonardi Parroco della Diocesi di Acireale
«“Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (Gv 20,21-22).
Nei giorni scorsi il Vescovo di Pinerolo, mons. Derio Oliverio, ha scritto una lettera alla sua Chiesa dove, tra le altre cose, dice che «… questo periodo di pandemia e di crisi non è una semplice parentesi, questo tempo parla, ci parla. Questo tempo urla. Ci suggerisce di cambiare». A chi parla questo tempo? Certamente a tutti, ad ogni uomo e donna di buona volontà, ma in particolare parla a noi presbiteri che, come tutti i fedeli, abbiamo vissuto questa quarantena condividendo l’isolamento, le preoccupazioni e le paure, i disagi e le angosce. In più abbiamo sentito forte la loro mancanza nelle celebrazioni e nella vita pastorale momentaneamente sospesa e in attesa di essere ripresa. Questo Pastore della Chiesa ci dice, in fondo, che non è una parentesi quello che è successo o sta succedendo, non stiamo chiudendo una pagina buia della nostra storia, sperando che tutto torni alla normalità come prima. “È cambiato il mondo”. Non vi sembri una esagerazione questa affermazione, perché se veramente guardiamo a ciò che è successo senza prevenzioni o pregiudizi ci accorgiamo che veramente è cambiato il modo di relazionarci e di “fare Chiesa”.
Certo, tutto questo può averci profondamente segnato tanto da avere ora difficoltà a riprendere il nostro apostolato e compiere la nostra missione, che è la stessa affidata dal Risorto ai suoi apostoli nel giorno di Pasqua: «Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi», così come leggiamo nel Vangelo di Giovanni 20,21. Non potevano gli Undici rimanere chiusi nel Cenacolo, luogo sì di intimità e sicurezza, ma pur sempre segno, di tutte quelle paure che li abitavano, rappresentate dalla paura dei Giudei. Bisognava andare, bisognava partire per le strade del mondo, per portare a tutti la bella notizia della Risurrezione, la speranza di una vita nuova in Cristo, la certezza della vita eterna.
Con queste stesse parole di Gesù, Papa Francesco, nella terza parte della sua lettera ai presbiteri di Roma, esorta i suoi preti, ma anche tutti i presbiteri del mondo, a non rimanere prigionieri delle paure provocate da una presenza «… invisibile, silenziosa, espansiva e virale che ci ha messo in crisi e ci ha sconvolto», ma a lasciarci scuotere da un’altra Presenza «… discreta, rispettosa e non invasiva», quella del Cristo Risorto «… che ci chiama di nuovo e ci insegna a non avere paura di affrontare la realtà» ed essere, così, testimoni di speranza in mezzo ai nostri fedeli.
Anche i Vescovi di Sicilia, nel messaggio che hanno inviato a noi presbiteri lo scorso 31 maggio, ci esortano a: «… guardare oltre per poter scorgere anche in questa oscurità il volto radioso del Risorto che ci chiama per nome e ci chiede di correre per annunciare a tutti la novità del Vangelo» e proprio per questo non possiamo indugiare, «… ma con coraggio riprendiamo a correre, spronando coloro che paurosi non vorrebbero più uscire o senza lavoro non vorrebbero più sperare, e permettendo a tutti di credere fermamente in Colui che ha rinnovato ogni cosa con l’azione del suo Spirito».
Dobbiamo riconoscere che se i nostri Pastori, dal Papa ai nostri Vescovi, sono unanimi e concordi nel parlare, ciò significa che è proprio questo che il Signore vuole da noi, perché forse è questa l’urgenza della Chiesa e del nostro ministero sacerdotale oggi, per cui non possiamo ignorare o sottovalutare questa chiamata.
Certamente ciò richiede coraggio e forza, fantasia e creatività per saper leggere, nell’ottica di Dio, ciò che è accaduto e discernere quanto possiamo fare per incoraggiare, accompagnare e riaccendere la speranza nel cuore di ogni uomo, oggi duramente provato dai problemi causati da questa pandemia e dai suoi strascichi. Siamo chiamati, come scrive il Papa usando una bella immagine, ad essere sentinelle che annunciano l’alba di un nuovo giorno dopo una lunga notte di tenebre. Essere sulla breccia, svegli, coraggiosi e lungimiranti: questo è il prete di cui il mondo e la Chiesa oggi hanno bisogno.
Forse tutto questo può sembrarci impari se guardiamo a noi stessi e a ciò che siamo e può spaventarci. In fondo siamo dei poveri uomini con le nostre fragilità e paure, come affrontare un compito cosi arduo? Gesù, in quel primo giorno dopo il Sabato, lo sapeva chi aveva di fronte, li conosceva bene e aveva sperimentato sulla sua pelle tutte le loro debolezze essendo rimasto solo nel momento più difficile e tragico della sua vita. Per questo dopo aver dato loro il mandato di andare, aggiunge «… ricevete lo Spirito Santo».
Sì, perché non siamo noi i protagonisti della missione, ma è lo Spirito. Noi siamo vasi deboli e fragili che, ricolmi della grazia di Dio, siamo chiamati ad andare a dissetare la sete di amore e felicità che c’è nel cuore dell’uomo, senza paura di potersi crepare e rompersi.
Più che vivere da rassegnati, il Papa ci esorta a lasciarci “sorprendere” dallo Spirito del Risorto. Che bella questa immagine. Si sorprende chi è vivo dentro, chi vive in continua ricerca, chi è desideroso di quelle cose nuove che Dio suscita in noi e attorno a noi. Sorprendersi è l’atteggiamento dei semplici, degli umili, dei “piccoli in spirito”, per questo il Papa ci augura di essere ricchi di tutte quelle virtù evangeliche come: «… l’audacia e la prodigalità evangelica della moltiplicazione dei pani (cfr Mt 14,15-21); il coraggio, la premura e la responsabilità del samaritano (cfr Lc 10,33-35); la gioia e la festa del pastore per la sua pecora ritrovata (cfr Lc 15,4-6); l’abbraccio riconciliante del padre che conosce il perdono (cfr Lc 15,20); la pietà, la delicatezza e la tenerezza di Maria di Betania (cfr Gv 12,1-3); la mansuetudine, la pazienza e l’intelligenza dei discepoli missionari del Signore (cfr Mt 10,16-23)», affinché non voltiamo «… le spalle alla dura e difficile realtà dei nostri fratelli», ma piuttosto «… accompagnare, curare e fasciare le ferite del nostro popolo».
Lasciarsi stupire dal Signore, scrive il Papa, ma anche «… dal nostro popolo fedele e semplice, tante volte provato e lacerato, ma anche visitato dalla misericordia del Signore, per plasmare e temperare il nostro cuore di pastori con la mitezza e la compassione, con l’umiltà e la magnanimità della resistenza attiva, solidale, paziente e coraggiosa, che non resta indifferente, ma smentisce e smaschera ogni scetticismo e fatalismo». Ammettiamolo, quanto abbiamo imparato, proprio noi preti, dalla testimonianza di tanti fedeli laici in questi mesi di quarantena? Quanti esempi di comunione e amore abbiamo ammirato, quanta solidarietà, quanta preghiera familiare. Ecco, il Risorto ci chiede di non far cadere nel dimenticatoio tutta questa opera dello Spirito, ma, attraverso il discernimento personale e comunitario, individuare quelle vie nuove che il Signore ha aperto nel deserto di questo tempo, per poi donarci totalmente, come “il pane che si spezza e si dona”, per accompagnare, sostenere, aiutare, amare, coloro che il Signore ci ha affidato ed essere così “olio profumato in ogni angolo delle nostre città”. Sono tutte immagini che usa il Papa per dirci come attraverso il nostro ministero siamo chiamati a donarci, per ridare il gusto e la gioia della vita a chi in questo momento li ha persi.
Possiamo, dunque, far finta di nulla e continuare a fare i preti come sempre, sprecando così l’occasione che il Signore ci sta offrendo, oppure possiamo essere preti nuovi che, attraverso il proprio ministero, permettono a tutti di incontrare il Signore della vita. Per questo i Vescovi di Sicilia scrivono: «… non riprendiamo le nostre attività pastorali come prima, come se nulla fosse successo. Non si può ritornare ad essere solo “funzionari del sacro”, siamo chiamati ad offrire come Pietro alla Porta del Tempio non la moneta di Cesare, ma l’immagine di Cristo». O sarà così, dice Papa Francesco, o sarà peggio di prima.
Ma quali sono quei germi di novità che abbiamo sperimentato in questo tempo di pandemia? Ne individuo alcuni, consapevole che ognuno saprà aggiungere quello che lo Spirito gli suggerisce e gli ha fatto sperimentare.
Credo che in questi mesi abbiamo innanzitutto riscoperto la nostra vera identità di presbiteri così come indicata in Atti 6,4: «Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». Il mondo in cui viviamo, spesso ci fa smarrire questo compito primario e ci fa disperdere in attività che, possono anche essere importanti, ma non essenziali. Impieghiamo tanto tempo in cose che ci stressano e sfiancano, facendoci trascurare l’essenziale del presbitero che è quello di pregare per i propri fedeli e annunciare la Parola. In questo tempo abbiamo pregato per il nostro popolo e fatto risuonare la Parola in tante modalità, che forse prima sconoscevamo. Di questo hanno innanzitutto bisogno i nostri fedeli e questo è quello di cui dovrebbe essere pieno il nostro tempo.
Mentre riscoprivamo la nostra vera missione, ci siamo accorti che anche i laici hanno un loro specifico ministero che è quello di fare della loro vita quotidiana una offerta gradita a Dio e portare Cristo nelle realtà mondane, cioè in quei luoghi e circostanze dove l’uomo vive, gioisce, soffre, si relaziona, lotta e spera, a cominciare dalle famiglie. Forse non ce lo aspettavamo che le nostre famiglie avessero la possibilità di realizzare e vivere ciò che il Concilio Vaticano II aveva profetizzato e sognato per loro e cioè essere “piccole chiese”, “santuario domestico della Chiesa”. Le nostre case sono diventate spazi di preghiera, i genitori hanno avuto la possibilità di annunciare la Parola e trasmettere la fede ai propri figli. Abbiamo assistito a delle vere e proprie liturgie domestiche che dovrebbero diventare la normalità, non nel senso di sostituire la liturgia comunitaria in parrocchia, ma come prolungamento di essa nelle realtà della vita quotidiana. Una liturgia sacramentale che non in-forma la liturgia della vita, serve a poco e rimane sterile. Valorizzare i laici e la loro missione nella Chiesa e nel mondo, ecco un’altra via da percorrere.
Inoltre abbiamo visto come questo tempo che ha fatto esplodere tante emergenze sociali, ha risvegliato e messo in moto la carità di tutti. Fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e meno giovani, che hanno sfidato anche le proibizioni della legge per mettersi a servizio dei più poveri, affinché non mancasse a nessuno il necessario per vivere. Gente semplice, ma anche imprenditori, che hanno condiviso ciò che avevano e potevano con chi ne aveva bisogno. Una straordinaria testimonianza di carità che non può finire, ma che deve farci prendere sempre più consapevolezza che la fede senza le opere rischia di morire. Per questo è compito di tutti aprire gli occhi sui bisogni degli ultimi e donare ciò che abbiamo e siamo perché il comandamento dell’amore sia vissuto pienamente. La Chiesa o ama e si dona agli ultimi o non è credibile.
E, infine, credo che un’ultima cosa che abbiamo scoperto e imparato, anche con una certa fatica, è la potenzialità che oggi, in questo nostra società hanno i mezzi di comunicazione sociale. Come sarebbe stato questo periodo, se non avessimo avuto a disposizione questi preziosi strumenti? Certamente saremmo stati ancora di più soli, noi nelle nostre chiese e i fedeli nelle loro case. Il poter entrare in ogni casa, il poterci sentire e vedere anche da lontano, ha alleviato la solitudine di molti, ha lenito la sofferenza della lontananza, ha curato le ansie, ha permesso la prossimità e la comunione, ha fatto giungere la Parola di Dio in tutti i luoghi, ad ogni uomo e in ogni cuore. «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» scrive Paolo a Timoteo (4, 2) e possiamo aggiungere “con ogni mezzo”. Deve essere questo l’anelito, il desiderio e il compito di ogni presbitero.
Ecco alcuni sentieri che lo Spirito ha aperto nella nostra azione pastorale, e che siamo chiamati a percorre con coraggio e fantasia, con forza e speranza. «Abbiamo il dovere di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza in questo cambiamento d’epoca attraversato da nuove emergenze nel contesto sociale e culturale», ci dicono i nostri Vescovi e per questo non è più tempo di camminare, o peggio trascinarci in cose già fatte e sapute, ma è tempo di “correre”, tenendo fisso lo sguardo su Gesù Cristo che sempre ci precede e ci attende, lasciandoci condurre dal suo Spirito.
Con l’augurio che tutto questo possa servire a noi presbiteri, come conclude Papa Francesco nella sua lettera, ad “amare e servire di più”, per riprendere con più entusiasmo e zelo il nostro ministero sacerdotale.
Don Salvatore Alì, Parroco della Diocesi di Catania
È bello condividere con tutti queste riflessioni e, in fondo, anche commovente, cioè capace di muovere insieme il nostro ministero: muovere insieme ciò che abbiamo ricevuto come dono dal Signore per l’unità vivente del Suo Corpo che è la Chiesa. Quel Volto umano di Dio – questa è la verità della Chiesa – perché l’Incarnazione continua, vivificata dalla Pentecoste, per mostrare all’uomo di ogni tempo, di ogni luogo, agli uomini che transitano nel nostro abitare in mezzo al mondo, il Volto amante e paterno di Dio, non lontano ma sempre Emmanuele, Dio che abita tra gli uomini e vive con e per loro.
Ringrazio i nostri don, i nostri presbiteri, per questa esperienza di comunione, per essersi messi in ascolto e essersi lasciati interrogare, donandoci il frutto di questo ascolto.
Spero solo che esperienze del genere possano trovare altri spazi e momenti.