di Don Antonino De Maria
Viviamo in un tempo in cui la parola sovrasta il silenzio della riflessione: non c’è tempo e non bisogna perdere tempo a dire, a giudicare e a riempire delle proprie opinioni il mondo della comunicazione. Questo stare in casa ha sovraffollato i social di intellettuali, opinionisti, tuttologi, di basso o mediocre valore: si chiamano influencer, blogger, youtuber.
È il nuovo modo di esistere in un mondo sempre più anonimo, dove abbiamo scoperto solitudini, povertà, disumanità. Ma se tu non dici la tua, amico mio, chi sei? Ciò avviene anche dentro la Chiesa, sempre capaci di trovare contrapposizioni, vere o presunte, nel tentativo di dire un pensiero altrimenti scomodo anche per chi lo dice, attribuendolo o spalmandolo nel crogiuolo delle opinioni altrui.
È un mestiere vecchio come quell’altro: capace di strattonare ogni cosa, mettendo insieme mezze verità ma senza capacità di sintesi. La sintesi: non quella del processo hegeliano che è approdo e superamento, per un altro approdo e un altro superamento; bensì quella alla quale dovremmo essere avvezzi: quella agapica del Dio Trinità, la comunione che invece è sovrabbondanza ed unità.
Anche le discussioni ecclesiali di questi tempi, così provinciali in fondo di cui abbiamo già parlato su questo giornale, sembrano più esercitazioni di personaggi in cerca d’autore, alla ricerca di pensieri intelligenti che sono incapaci di esprimere e che tentano di attingere nella confusione della parola.
Manca il tempo dell’ascolto, soprattutto dell’ascolto del popolo di Dio che, spesso, si trova confuso in questa infelice confusione. Per ascoltare stranamente, però, bisogna essere maestri e per essere maestri occorre avere la capacità agapica della sintesi che sa cogliere in ciò che è opposto, realmente o apparentemente, qualcosa della Verità cui rimandare, alla quale fungere da via. Compito della Parola e ministero umano, oggi sempre più raro.
Ascoltare la gente non strattonarla dalla propria parte come in un gioco di squadre in competizione. Così ci si rende conto di cosa arde nel desiderio di normalità della gente o nella paura, frutto spesso di psicosi indotta da una comunicazione fuorviante; nell’aggrapparsi ad una sacralità senza volto, espressione di un terrore di una teofania senza carne e senza spirito, che mischia il santo e profanizza tutto il resto; in una vaghezza ormai oltre il new age e il next age, profondamente e religiosamente atea, nel quale la religione è tutto e niente, ammasso di inutili credenze e vaghezza di consolazione, senza luogo ne tempo.
In tutto questo, piuttosto, che dire e contrapporre mezze verità, tra biblicismi e falsa cultura libresca, il problema per la Chiesa rimane il Vangelo, detto e non abbastanza ascoltato e ridetto. Leggendo i teologi anche di oggi ritorna la consapevolezza del salmista: “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (salmo 61, 12). Il Maestro è una parola sovrabbondante capace di ascolto e di ricondurre alla Verità e alla Vita chi si è smarrito, facendosi Via.
Per questo piuttosto che una scelta di campo, come nella contrapposizione, bisogna condurre alla sorgente il nostro popolo perché trovi il Maestro. Lì nell’approdo all’altra riva, quella reale, ognuno trova la pace nelle sue ansie, nei suoi timori, nelle sue parziali esperienze di Dio: Dio sta lì con un Volto, come Colui che attende da sempre e da sempre prepara un cibo per i commensali, per la familiarità. Alla sua mensa ognuno trova posto e scopre che quel posto era eternamente suo. Dio ha pazientato nell’attesa che tu arrivassi e chiederà conto al nocchiero se, strada facendo, ti ha perso. E se i tuoi passi non vorranno più posarsi nelle sue impronte lasciate come forti, durevoli solchi piangerà ancora, per te, uomo.
Ecco la direzione di ogni pastorale e la garanzia di fecondità per ogni creatività: ecco il mistero della Chiesa e la sua alba. Al tramonto non c’è il buio: la luce di Cristo.