di Don Antonino De Maria

In questo difficile tempo che stiamo vivendo, le richieste dei nostri Vescovi, prese mal volentieri e in obbedienza all’autorità che non ci impedisce la libertà di professare la nostra fede, come quella di non celebrare in pubblico la santa Messa, non costituiscono il vero problema. Il vero problema siamo noi: gli obesi di una spiritualità dovuta, abituale, che a lungo andare ha perso qualcosa del Vangelo, contrapponendo l’amore di Dio all’amore del prossimo. Mi chiedo quale Vangelo o quale testo profetico abbiano mai letto questi difensori zelanti del primato di Dio. Scambiano la loro religione per cristianesimo.

Il cuore del cristianesimo non è un vago primato del sacro e di Dio ma l’esperienza del mistero pasquale di Cristo che è Morto e Risorto per noi, perché avessimo la vita. Per questo adorare Dio non può essere disgiunto da questo avvenimento di salvezza. Gesù stesso ha detto per esempio che il Sabato è per l’uomo e non l’uomo per il Sabato e proprio quando i suoi discepoli contravvenivano alle norme sul Sabato che è il giorno di Dio, dove l’uomo smette ogni occupazione per dedicarsi al Signore. O quando accusava i farisei riguardo all’obolo del Tempio, sacro a Dio e Gesù mette il bisogno dei genitori al di sopra di questo gesto sacro. E la frase più amata, tratta dai Profeti: Misericordia voglio, non sacrifici, non sembra mettere forse l’amore del prossimo (la Misericordia) al di sopra del gesto cultuale rivolto a Dio del sacrificio? Nell’Antico Testamento non leggiamo che religione santa e pura consiste nell’amare il prossimo?

Per questo il vero problema siamo noi e la spiritualità giansenista che ancora serpeggia nelle nostre catechesi e nel nostro culto a Dio, che contrappone l’amore di Dio all’amore del prossimo. A questo va aggiunta una religiosità miracolistica che fa della fede una sorta di magia e di Dio l’onnipotente mago che va accarezzato perché faccia ciò che noi gli chiediamo: ma questa pantomima di Dio è il Demonio.

Ancora Gesù ci ricorda: “In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte?  No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.  O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. (Luca 13, 1-5). Questo è il tempo di convertirci veramente. E la conversione si mostra nel frutto della carità.

Gesù stesso ci ha dato un comandamento nuovo: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.  Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.” (Giovanni 15, 9-17)

E Sant’Agostino commenta: “In questa pagina che adesso avete sentito leggere, il Signore prosegue: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Gv 15, 17).

E’ precisamente questo il frutto che egli intendeva quando diceva: Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole. E quanto a ciò che ha aggiunto: affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome, vuol dire che egli manterrà la sua promessa, se noi ci ameremo a vicenda. Poiché egli stesso ci ha dato questo amore vicendevole, lui che ci ha scelti quando eravamo infruttuosi non avendo ancora scelto lui. Egli ci ha scelto e ci ha costituiti affinché portiamo frutto, cioè affinché ci amiamo a vicenda: senza di lui non potremmo portare questo frutto, così come i tralci non possono produrre alcunché senza la vite.

Il nostro frutto è dunque la carità che, secondo l’Apostolo, nasce da un cuore puro e da una coscienza buona e da una fede sincera (1 Tim 1, 5). E’ questa carità che ci consente di amarci a vicenda e di amare Dio: l’amore vicendevole non sarebbe autentico senza l’amore di Dio. Uno infatti ama il prossimo suo come se stesso, se ama Dio; perché se non ama Dio, non ama neppure se stesso. In questi due precetti della carità si riassumono infatti tutta la legge e i profeti (cf. Mt 22, 40): questo il nostro frutto.

E a proposito di tale frutto ecco il suo comando: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Per cui l’apostolo Paolo, volendo contrapporre alle opere della carne il frutto dello spirito, pone come base la carità: Frutto dello spirito è la carità; e ci presenta tutti gli altri frutti come derivanti dalla carità e ad essa strettamente legati, e cioè: la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fedeltà, la mitezza, la temperanza(Gal 5, 22).

E in verità come ci può essere gioia ben ordinata se ciò di cui si gode non è bene? Come si può essere veramente in pace se non con chi sinceramente si ama? Chi può essere longanime, rimanendo perseverante nel bene, se non chi ama fervidamente? Come può dirsi benigno uno che non ama colui che soccorre? Chi è buono se non chi lo diventa amando? Chi può essere credente in modo salutare, se non per quella fede che opera mediante la carità? Che utilità essere mansueto, se la mansuetudine non è ispirata dall’amore? E come potrà uno essere continente in ciò che lo contamina, se non ama ciò che lo nobilita? Con ragione, dunque, il Maestro buono insiste tanto sull’amore ritenendo sufficiente questo solo precetto.

Senza l’amore tutto il resto non serve a niente, mentre l’amore non è concepibile senza le altre buone qualità grazie alle quali l’uomo diventa buono.”[1]

Per Agostino “l’amore di Dio è sottinteso nel comando dell’amore fraterno: l’esperienza della carità fraterna implica ugualmente una visione del Dio-Carità e una inabitazione dell’uomo in Dio e di Dio nell’uomo.”[2]

Dio è amore per questo amare il fratello è amare Dio. Questo è il vero culto spirituale. E in questo tempo, fratelli, siamo chiamati a testimoniare l’amore di Dio amando i fratelli, mentre i sacerdoti continuano ad offrire senza concorso di popolo il sacrificio di Cristo per tutti.


[1] Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 87, 1

[2] A. De Maria, Credo nello Spirito Santo la santa Chiesa cattolica, Istina, Siracusa 2010, p. 268-269

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